A Venezia, presso Palazzo Grassi, è in corso fino al 6 gennaio 2015 la collettiva L’illusione della luce, curata da Caroline Bourgeois e che, in modo non solo fisico ma filosofico e politico, esplora la profonda ambivalenza della luce: un «apparire» profondamente diverso dal suo essere. Fra gli artisti, accanto a Dan Flavin, Julio Le Parc, Marcel Broodthaers, Antoni Muntadas, Philippe Parreno, espone anche Latifa Echakhch. Le sue sono due opere di particolare pregnanza: À chaque stencil une révolution (2007) e Fantôme (Jasmin), del 2012.
Francese di adozione ma nata a El Khnansa (Marocco) e residente in Svizzera, Latifa Echakhch si è aggiudicata il Prix Marcel Duchamp 2013. A Venezia ha incontrato il pubblico, dialogando con il critico e curatore Alessandro Rabottini, nell’ambito delle Art Conversations, duetti sulle poetiche contemporanee fra artisti della collezione Pinault ed esperti del mondo dell’arte.
Lei interpreta «l’illusione della luce» attraverso il lato oscuro di ogni cosa, il suo rovescio. Nella sua installazione più nota in Italia, Fantasia (2011), la tradizione millenaria dei berberi a cavallo, mai colonizzati, diventa una selva di pennoni senza drappi, fra i padiglioni nazionali della Biennale di Venezia. Sparivano le bandiere e affiorava alla coscienza la finzione di un simbolo – l’unione dei Paesi – a cui non si è più sensibili. Il simbolo alla Cassirer – legame fra un segno ancorato alla corporeità e un contenuto dello spirito umano, astratto e collettivo – al posto del concetto. È una differenza di natura, marcata, o di grado, sfumata?
È una differenza di natura. Mi interessa la materialità dell’oggetto, la sua parte «vera». Osservo il materiale che, a un certo punto, mi indica la necessità della sua attivazione: non tanto per la «bruta» materia, quanto per quel che connota dal punto di vista sociale e politico. Quando attuo degli spostamenti di senso, è al simbolo come una possibile sfaccettatura dell’oggetto che guardo sempre.
È forse riduttivo dire che lei sostiene l’idea dell’opera aperta a più interpretazioni. Ma quanto possiamo considerarla aperta? Pensiamo ai «Frames» (2009), i bordi intersecati di tre tappeti senza tappeti. Lì non si sfugge al significato nomadico della preghiera per la cultura araba. Un segno che circola dappertutto in Occidente, ma di cui si ignora o, addirittura, sminuisce la valenza simbolica…
Ritengo essenziale il principio di libertà nell’interpretazione. Spesso apprendo, e mi sorprendo molto, di letture a cui non avevo pensato durante la realizzazione di un mio lavoro. Quando progetto un’opera, ne cartografo tutti i sensi possibili. Per esempio, nel citato Frames, entrano i campo le accezioni religiose, culturali, industriali e propriamente artistiche – il sistema dell’ornamento e della cornice – ma non ho un messaggio da veicolare. Preferisco porre domande, anziché asserire. La mia prospettiva è eminentemente politica, ma non in modo esclusivo. Temo invece le forme di strumentalizzazione dell’opera. Sono nata in Marocco, però non ci vivo e ci sono tornata pochissimo. Mantengo una distanza che per me è indispensabile anche nella riflessione politica. È un po’ questa la «trama» di À chaque stencil une révolution (2007).
In «À chaque stencil…», titolo che allude a una frase di Yasser Arafat al tempo delle proteste del ’68 contro la guerra del Vietnam, i fogli che tappezzano un enorme pannello davanti alla veduta esterna di Palazzo Grassi sono impregnati di inchiostro blu, che cola anziché scrivere. In «Fantôme (Jasmin)», di fronte alla medesima quinta teatrale, una camicia su un appendiabiti copre un mazzetto di gelsomini. Un ricordo personale, l’aver visto a Beirut un venditore ambulante che proteggeva il profumo e la freschezza dei fiori con una camicia, incrocia il riferimento alla Rivoluzione dei Gelsomini (2010-11) in Tunisia. China e carta carbone per queste due opere esposte a Palazzo Grassi inscenano quello che lei chiama l’«envers du décor», il rovescio dell’arredo. È l’altra faccia di ogni rivoluzione, il suo finire e diventare un fantasma?
Mi preoccupa molto il dopo rivoluzione, il passaggio delle cose. Il tempo della sommossa è magnifico, ma poi, cosa accade? La storia ci insegna che arriva il terrore. Sono attratta dalle passioni che si incontrano su quel bilico esistente fra il costruire e il distruggere.
Gli spazi le impongono delle costrizioni? Che tipo di patti si trova a stipulare?
Lo spazio è sempre una singolarità, che contiene in sé esigenze e resistenze. Queste emergono soprattutto nel trasferimento di un’opera da un museo all’altro, dato che nel mio caso non si tratta di appendere un quadro… L’itineranza, con la reinstallazione, crea una sorta di ping pong fra muri, pavimenti, corridoi. Coreografie in cui consiste la mia ricerca plastica. Ogni volta mi chiedo che paesaggio saprò far vedere. Così in Stoning (2010) la domanda sorta dagli angoli e dalle dimensioni degli spazi era: che aspetto avrebbe un paesaggio dopo una pioggia di pietre? Lì Richard Long è ormai scultura classica! Anche L’air du temps (2014) è nato una volta che ho notato le caratteristiche del luogo, l’Espace 315 del Centre Pompidou: una lunga sala rettangolare accessibile dal lato corto, che mi ha permesso di stabilire una profondità, un vano prospettico, e anche una piattaforma mobile (come tutte le sale sopraelevate del Pompidou), che oscilla col movimento dei visitatori, da cui l’idea di una scenografia di nuvole ondeggianti e percorribili, scese ad altezza d’uomo.
Sono rare le occasioni in cui lei lavora all’aperto. Eppure, le sale degli spazi istituzionali diventano modelli di pensiero, territori dell’impossibile – la pioggia di pietre, lo slalom fra le nuvole – che però non sono mai sublimati o cristallizzati. Anzi, incorporano l’esperienza, affidandosi a percezioni sinestesiche: il traballare del pavimento, altrove l’odore dei gelsomini, l’apticità dell’inchiostro sulla carta… E polarizzano lo spazio: le nubi di «L’air du temps», visibili da entrambi i lati, sono nere e disforiche nel tragitto di andata, bianche ed euforiche al ritorno…
Non ho una visione critica dello spazio chiuso del museo. L’interno, per me, è anzi una cornice espressiva, come lo è per lo scrittore la cornice del suo libro. I pochi lavori che ho realizzato all’aperto – come Fantasia – hanno comunque una cornice virtuale che è la mostra a cui appartengono. Dentro, però, nell’«esperimento di pensiero», faccio volentieri a meno di teche e vetrine. L’accesso al paesaggio avviene sempre senza troppe mediazioni.
Alcuni titoli delle sue opere citano versi. C’è un parallelismo fra arti visive e poesia?
Nella scrittura la poesia utilizza parole riconoscibili, ma che disposizione e combinazione decostruiscono: Rose is a rose is a rose is a rose (Gertrude Stein). Mi piace trasporre nelle arti questo modo di produrre significato, molto articolato e non predefinito. I legami in una forma minimale, concreta e necessaria, e il loro envers, il rovescio.