Comprendo l’avvilimento di molti opinionisti di fronte ad una realtà degradata che, a loro parere, è anche frutto di un riformismo degradato. Forse, però, dovrebbero riflettere sul fatto che il «riformismo», componente fondamentale e caratterizzante della nostra lunga modernità, è scomparso da parecchi lustri.

Quello di cui pubblicisti e politici parlano continuamente è puro flatus vocis a fine di manipolazione. Anzi tale riformismo è costitutivo sia dei meccanismi che tendono alla «fine del sociale», sia della ragione profonda della «ditta riformista».

Sono arrivato alla convinzione, e l’ho scritto al termine di studi dedicati alla storia del riformismo, che sia fondata la seguente tesi: «Nella lunga storia del movimento socialista ed operaio il riformismo è stato l’ordinaria normalità, la normalità strutturale, delle pratiche organizzative e politiche. Le rivoluzioni in atto, non il discorso sulla rivoluzione, ne sono state le contingenze extraordinarie, le cesure dell’ordinario svolgimento strutturale (..) Si può dire, , che il riformismo socialista sia l’unica pratica possibile tanto della pace armata che della guerra di posizione». Non credo, quindi, di poter essere accusato di nutrire pregiudiziali antiriformiste.

Sempre gli opinionisti di «centrosinistra» fanno riferimento, per le origini del riformismo di cui parlano in continuazione, a quello che ne sarebbe il momento fondante: il Programma di base di Bad Godesberg.

Il Programma, però, al di là della fraseologia ideologica legata alle necessità tattiche contingenti, è estremamente chiaro per quel che concerne l’idea di società della Spd ed i compiti che la Socialdemocrazia intende assumersi per riformarla in profondità.

Per i socialdemocratici tedeschi nel 1959 le tendenze nel mercato autoregolato portano inevitabilmente ad una concentrazione economica che si accompagna ad una concentrazione del potere politico, del «potere sugli uomini». La proprietà privata dei mezzi di produzione «ha diritto di essere protetta» ma solo «fintanto che essa non ostacola la costruzione di un ordine sociale giusto».

Compito della socialdemocrazia è quello di «impedire il controllo privato del mercato» e, dunque, a tal fine «la proprietà collettiva è una forma legittima di controllo pubblico». Tutto questo per un obiettivo di società in cui «da subalterno dell’economia, il lavoratore in cittadino dell’economia».

Quindi, il nostro riformismo è una rosa appassita o una diversa pianta?

Non mi pare vi possano essere dubbi in proposito. Una nuova pianta che la «ditta riformista» ha coltivato con dedizione e di cui Renzi raccoglie i frutti.

Il padre politico del riformismo italiano, Filippo Turati maturò, nel 1911, una profonda esigenza di separazione da un altro riformista storico, Ivanoe Bonomi. Ministro della Guerra e poi Presidente del consiglio nella crisi che aprì le porte al fascismo, Bonomi, nelle elezioni del maggio 1921 fu il promotore dei cosiddetti blocchi nazionali in funzione antisocialista.

Turati rompe sulla base della discriminante che considera essenziale per determinare la scelta di campo, una discriminante, come ebbe a dire, che «scinde e separa gli interessi, le classi, gli spiriti e li pone di fronte a battaglia». E la discriminante consisteva nel fatto che i Bonomi, i Bissolati ed altri «considerano i fenomeni economici dal punto di vista dell’economia politica puramente borghese». Vent’anni di politica economica e di elaborazione teorica (si fa per dire) della «ditta riformista» hanno prodotto un qualche diverso «punto di vista» rispetto alla ragione economica dominante?

Si potrebbero citare innumerevoli e concretissime prove sulla completa internità all’economia mainstream di quel punto di vista, ma la costituzionalizzazione del fiscal compact è fenomeno enorme, di una portata pratico/ideologica regressiva che non ha precedenti nemmeno nell’ingloriosa storia della «ditta». Un grado di regressione talmente palese che persino un centro di ricerca della Luiss non ha potuto definire se non in questi termini: « … ciò poteva trovare giustificazione all’epoca dello “Stato minimo” ottocentesco, oggi difficilmente tale visione potrebbe armonizzarsi con le esigenze e le peculiarità del moderno Stato sociale» («Amministrazione In Cammino, febbraio 2012»).

In sostanza si sono dichiarate incostituzionali tutte le teorie economiche non coincidenti con la dominante ideologia neoliberista, e lo si è fatto in aperta contraddizione proprio con il dettato di quella Costituzione che concepisce la democrazia come tensione continua verso l’ampliamento dei diritti sociali.

È del tutto razionale, dunque, e del tutto coerente con l’acquisizione dei «nuovi» principi, che la cosiddetta «sinistra Pd» voti compattamente la sostanza del «riformismo» costituzionale di Renzi, salvo impuntarsi su qualche virgola. Un «riformismo» costituzionale il cui padre nobile è Giorgio Napolitano, il Bonomi dei nostri giorni.

Nel 1911 Bonomi spinge per la guerra in Libia; esattamente cent’anni dopo Napolitano è il protagonista della nuova avventura italiana sulla quarta sponda.

Naturalmente fenomeni di tal genere non si spiegano con la categoria del «tradimento». Quale rapporto hanno, però, con quel «punto di vista» sull’economia che per Turati rimaneva il fattore discriminante per eccellenza nella scelta tra i campi posti «di fronte a battaglia»? Quale rapporto hanno con quella tensione riformatrice verso forme sempre più avanzate di democrazia economica e sociale che è una delle promesse fondamentali della modernità?