Il contesto economico italiano continua a preoccupare, a partire dal debito pubblico. Il Fmi prevede che possa salire fino al 139% nel prossimo quinquennio.
Nonostante la sua possibile ristrutturazione sia ipotesi assai remota, il solo parlarne costituisce un tabù. La scorsa settimana un intervento su Il Sole 24 Ore di Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli, rispettivamente professore alla London School of Economics ed economista ed ex parlamentare del Pd, ribadiva che la ristrutturazione del debito produrrebbe «danni immensi», senza risolvere alcun problema. La ristrutturazione di un debito pubblico è data quando un paese decide di tagliare il valore dei propri titoli di Stato ai creditori oppure allungarne la scadenza, finendo anche qui per svalutarli.

Le modalità in cui ciò avviene possono essere molteplici, a partire dall’individuazione dei creditori da colpire.

Ma tale prospettiva sembra essere come un fantasma che si aggira per il continente. Vediamo perché. Agli autori preoccupa che il Fondo Salva Stati (Esm) assisterà solo quei paesi che dimostreranno di avere un debito pubblico sostenibile, finendo per incentivare la ristrutturazione di quei debiti che non potranno ricevere un sostegno dal Fondo.

Ma allora perché chiedere aiuto se il debito risulta sostenibile? Preoccupa poi l’impegno europeo a introdurre nel 2022 delle clausole per l’emissione di titoli di Stato che faciliterebbero la ristrutturazione dei debiti.

Segnali questi che andrebbero nella pericolosa direzione di incentivare i default controllati. Come se fosse in corso la maturazione di un nuovo approccio a livello continentale. La prima preoccupazione degli autori è che attualmente solo il 30% dei titoli sarebbe in mano a soggetti stranieri, dunque la ristrutturazione ricadrebbe tutta sulle spalle degli italiani. La nazionalità dei possessori di titoli italiani, considerato l’elevato grado della finanziarizzazione, è piuttosto difficile da definire con precisione, ma ammesso che il dato sia sostanzialmente corretto viene da chiedersi come mai l’ipotesi della ristrutturazione fosse considerata inopportuna anche al momento dell’esplodere della crisi, quando la quota di titoli in mano a stranieri era considerata superiore al 50%.

Sostengono inoltre che la ristrutturazione condurrebbe a maggiore austerità, necessaria per impedire al debito di ripartire anche a fronte di una crescita successiva pari al 3-3,5%. Cifra inverosimile se si considera la riduzione di spesa per interessi. Carlo Cottarelli pochi anni fa proponeva un progetto fondato su un prolungato rientro del debito attraverso modeste dosi di austerità e una crescita esattamente pari al 3%.

Cifra probabilmente ottimistica, ma in ogni caso molto lontana dalle attuali aspettative. Complessivamente non sembrano esserci grandi scorciatoie.
Certo una ristrutturazione metterebbe in difficoltà il sistema bancario e in un ipotesi coerente il comparto dovrebbe ritrovare un protagonismo pubblico, magari differente dall’attuale elargizione di denaro e garanzie senza alcuna contropartita in termini di governo del credito.

Ma indubbiamente su un aspetto i nostri autori hanno ragione: la ristrutturazione «sarebbe di fatto una patrimoniale». O meglio potrebbe esserlo. Proprio perché non esistono soluzioni facili ove tutti escono vincenti, si tratta di individuare quali possono essere i soggetti che devono pagare maggiormente il conto. Se come afferma la vulgata mainstream abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, non tutti avremo goduto in pari quantità.

Cioè chi ha ottenuto i maggiori vantaggi in questi anni? I dati sulla diseguaglianza parlano chiaro. La ristrutturazione potrebbe rappresentare una patrimoniale alla rovescia, dove lo Stato non deve inseguire contribuenti in fuga. Basterebbe selezionare la platea dei creditori con criteri democratici e sociali. Chi più ha di più deve contribuire.