L’esplosione di una nuova crisi finanziaria è da tempo un fantasma che si aggira per il pianeta e che spunta in maniera curiosa, in particolare in questo momento.

I fondamentali dell’economia complessivamente non sono negativi, ma il Fmi prevede per il 2019 una riduzione della crescita dal 3,6% al 3% su scala globale, cioè il tasso più basso registrato negli ultimi dieci anni. Tale contrazione sarebbe dovuta principalmente alle guerre sui dazi. Va aggiunto che la crescita è il frutto di continue e massicce dosi di liquidità, a cui il sistema pare essersi via via sempre più assuefatto, tanto che risulta complicato scorporare gli effetti di questa droga monetaria dalla ripresa intrinseca dell’economia reale. Anzi, quest’ultima sembra essere mediamente piuttosto stagnante.

La crescita, dunque, pare il risultato di una frenesia finanziaria ottenuta prevalentemente attraverso espedienti monetari. Espedienti che i banchieri centrali non riescono a derubricare dalla loro agenda. Le cosiddette armi non convenzionali non sono mai scomparse nel contrastare deflazione e bassa crescita. E probabilmente senza queste il contesto sarebbe peggiore. Quantitative easing, tassi zero o negativi, piani di finanziamento alle imprese a tassi irrisori, tutte misure per costringere, come si dice, il cavallo a bere. Ma l’equino sembra non avere sete.

Ed ecco allora che tutto questo armamentario mostra sempre più i propri limiti. Il ventaglio di titoli da acquistare si riduce considerevolmente, fino a far ipotizzare alla Bce l’esaurimento del nuovo quantitative easing entro il 2020. I tassi a zero non inducono i consumatori a spendere di più, i tassi negativi sui depositi rischiano di affaticare ulteriormente gli istituti di credito e contemporaneamente preoccupano le imprese, ma non sembrano ridurre il risparmio.

Tra gli effetti collaterali, poi, la crescente marea monetaria determina anche una ricerca sfrenata di impieghi remunerativi che finisce per deprimere la profittabilità consueta delle banche, favorendo persino processi criminali nel settore.

L’Economist, ad esempio, questa settimana mette sotto i riflettori le «massicce» attività di riciclaggio condotte da istituti danesi e svedesi in connubio con paesi dell’Europa orientale e la Russia.

Un meccanismo ormai assurto a sistema tanto che il settimanale inglese parla ironicamente di «noir nordico» e «rovine del nord». Laddove esisteva un modello scandinavo incentrato su welfare, ricchezza robusta e diffusa e, perché no, legalità. Il potere corrosivo di una finanziarizzazione dell’economia, invece, ha corrotto globalmente il pianeta, finendo per omologarlo ai principi neo-liberali e al suo portato di speculazioni generalizzate. Oggi così si torna a parlare di bolla finanziaria o di recessione e tutte le politiche monetarie fin qui adottate rischiano di apparire da un lato inefficaci e dall’altro persino controproducenti, favorendo il rischio di una nuova tempesta finanziaria invece di allontanarlo.

Al contempo, sebbene i banchieri centrali chiedano a gran voce delle politiche fiscali espansive, perlomeno per gli Stati che se le possono permettere, nulla di significativo appare all’orizzonte. Anzi, paesi come l’Italia, invece di approfittare delle politiche monetarie accomodanti rilanciando un grande piano di investimenti in infrastrutture ambientali e sociali, hanno continuato a concentrarsi su tagli e spesa corrente.

Ferruccio de Bortoli, nel dare il commiato al presidente della Bce, ha recentemente affermato che «il lascito di Draghi non va ulteriormente sprecato».

Ora non si tratta di approfittare della tregua in corso, magari per fare le tanto decantate, ma socialmente dolorosissime riforme, quanto di prendere atto che persino le soluzioni monetarie temporanee sono diventate parte del problema e non potranno puntellare il sistema ancora a lungo.