Sappiamo più o meno che cosa significa balordo: è qualcuno poco lucido, un po’ ai margini, che potrebbe danneggiarci, magari senza volerlo, e che è meglio evitare.

Forse deriva dal francese balourd: un eccesso di peso, uno squilibrio, ma anche un babbeo.

Ci siamo precipitati a definire la pandemia del coronavirus come una guerra, con i vocaboli derivati – la linea del fronte, gli eroi che rischiano la vita, l’esigenza di una disciplina di ferro, di un comando unico e di sanzioni severe per chi sgarra, mobilitando l’esercito.

Ma abbiamo evocato un fantasma più che descritto la realtà. Un fantasma balordo. Non una cosa completamente infondata, ma rischiosa, pericolosamente imprecisa. Il balordo è anche sciocco, uno «tardo d’intendimento», come recita un vecchio dizionario.

Me ne ha ancor di più convinto l’interessante articolo di Francesco Merlo su Repubblica di sabato scorso: La prima vera guerra mondiale.

Mentre le guerre mondiali hanno pur consentito ad alcuni paesi di mantenersi neutrali, e non hanno raggiunto con bombe e devastazioni tutte le parti del globo (compresi gli Stati Uniti, pur belligeranti dopo Pearl Harbor), il virus invece non risparmia proprio nessuno. Nessun territorio e, potenzialmente, nessun individuo che pur si dichiarasse non belligerante.

Qui la metafora della guerra già traballa. Infatti essa si svolge tra uomini che sono più o meno in grado di riconoscersi come nemici, alleati, o neutrali. Mentre abbiamo a che fare con un piccolo essere sconosciuto che non sembra in grado di fare queste distinzioni.

Inoltre, parlando del dolore che ci procura il decidere di essere prudenti, di mantenere le «distanze di sicurezza» anche con figli, genitori anziani, e le persone che più amiamo, Merlo scrive: «La guerra, come sempre, smembra le famiglie, ma questa volta perché rende i fratelli sospetti ai fratelli. E come tutte le prime volte della storia, il passato insegna ma nello stesso tempo confonde: non vale a niente rafforzare gli eserciti, perché i guerrieri del mondo ora sono i medici, con molti eroi e pochissimi disertori che non vengono però fucilati, anche se non presentarsi negli ospedali equivale e non onorare la chiamata alle armi. La guerra è così nuova che il Soccorso e la Croce rossa sono trincea di prima linea e non più retrovia».

Insomma, per chiamare «guerra» questa disgrazia che ci è capitata bisogna dire che è di un tipo che non si era mai visto prima. Non so se fosse l’intenzione sottintesa dell’autore, ma questo tipo di racconto mi pare portare a una sola conclusione razionale: non si tratta affatto di una guerra.

Si tratta di saper riconoscere e contrastare una malattia, e di adeguare i nostri comportamenti, le scelte politiche e economiche, culturali, scientifiche a questa priorità.

Non dobbiamo aumentare una «potenza di fuoco», e nemmeno alimentare un discutibile senso dell’onore fino al rischio della vita, com’era nei duelli tra «gentiluomini» di una volta.

Bisogna invece sostenere e tutelare la capacità di cura dei medici e del sistema sanitario, spingere il mondo verso una cooperazione solidale per trovare i rimedi. Non sarà un Capo di Stato Maggiore a insegnarci la cura delle relazioni con noi stessi, con gli altri, con l’ambiente che ci circonda.

Si ripete ossessivamente anche che dopo il virus «nulla sarà come prima». Ma qualcosa di meglio avverrà se già ora cambiamo il modo di pensare e parlare. Se diciamo a sproposito «guerra», rischiamo di rimuovere le vere guerre tuttora aperte, e quelle che potrebbero venire. E finiamo per considerare quasi un nemico da abbattere anche una ragazza che, da sola, si concede un po’ di sole vicino al mare.