Ormai è comune leggere che – oltre al debito pubblico – la malattia economica dell’Italia sia la bassa produttività. Questa non ha nulla a che fare con l’efficienza della produzione essendo misurata come rapporto tra il valore aggiunto (il prezzo moltiplicato per la quantità) e la quantità di lavoro – a rigore il costo di questo – impiegato nella produzione. Per aumentare la produttività esistono quindi due vie: produzioni avanzate o nuovi beni e servizi (che hanno prezzi più elevati) e/o ridurre il costo del lavoro.
La prima misura è senz’altro più costosa: occorre inventare nuovi prodotti, investire in ricerca risorse che solo uno Stato può permettersi di affrontare.
L’altra via, almeno per le singole imprese, non ha costi diretti immediati sebbene – riducendo la domanda aggregata – diviene costosa per il sistema paese poiché aumenta la disoccupazione, la spesa delle famiglie e quindi, in un periodo più lungo, i profitti delle imprese stesse.
È da 22 anni che da noi si insiste con la seconda via, con provvedimenti sul lavoro. Il mercato del lavoro in Italia è stato oggetto di riforme continue di ispirazione liberista che, identificando la riduzione del costo – soprattutto del salario – con la flessibilità, hanno finito per rendere precaria la vita lavorativa, annullare gli aumenti salariali e ridurre i diritti dei lavoratori, senza aver prodotto effetti apprezzabili sulla disoccupazione che oggi – secondo le statistiche ufficiali – è grossomodo quella di allora. Se misurata in modo appropriato – ad esempio contando per metà gli occupati part-time non per loro scelta e misurando nella forza lavoro anche gli scoraggiati di breve periodo – la disoccupazione è più vicina al 20% che al 10. L’onda liberista colpì anche la sinistra di governo, artefice delle prime riforme e favorevole al fiscal compact che ha ispirato lo sciagurato provvedimento del pareggio di bilancio introdotto come modifica costituzionale dal Governo Monti nel 2012.
Il problema dell’occupazione in Italia non è che il mercato sia troppo rigido, quanto piuttosto che non ci sono nuovi lavori – per aumentare i quali occorrerebbe superare il modello di sviluppo degli anni Settanta fatto di produzioni tradizionali e punte di eccellenza, a basso valore aggiunto, ora non più in grado di essere concorrenziali coi paesi di recente globalizzazione. Così se Lombardia, Veneto ed Emilia sono saltati sul carro giusto, il Sud è rimasto indietro ed ad esso si stanno avvicinando quelle regioni – come Marche e Umbria – dell’area Nord Est Centro che non sono in grado di trasformare i vecchi distretti industriali.
In anni in cui non c’è più relazione tra aumento dell’occupazione e del Pil, quando ormai è evidente che l’ambiente è stato sacrificato in cambio della crescita, e le disuguaglianze mettono a rischio i sistemi democratici e la vita stessa del pianeta, siamo chiamati a un cambio di rotta, a proporre una alternativa.
E la sinistra deve farlo. Come? È ormai chiaro che dobbiamo investire in ricerca e sviluppo in produzioni meta-sostenibili e ad usare intelligenza artificiale e robot per vivere meglio – pagandoci le pensioni e un reddito di base – e che i salari correnti – fermi agli anni Novanta – sono troppo bassi per avere una domanda interna sufficiente a produrre un livello adeguato di occupati. L’idea che la deflazione salariale sia efficace nell’aumentare l’occupazione è una idea alquanto farlocca di secoli fa, quando non si era ancora individuato il nesso tra domanda aggregata ed occupazione.
Ora è chiaro che gli unici prodotti della deflazione salariale sono il fenomeno dei working poors, ormai un lavoratore su dieci lo è oggi in Italia, la precarizzazione del lavoro – e di conseguenza una pensione da fame – e una nuova ondata di migrazione, soprattutto giovanile, che sopravanza quella che pare così tanto preoccuparci. In un contesto simile occorre progettare il futuro per saperlo gestire: uno shock fiscale – a maggior ragione una flat tax – non serve che a peggiorare la distribuzione e a mettere a rischio il già nostro miserrimo welfare.
Una società sempre più dematerializzata, dove l’industria è destinata a scomparire, e la rivoluzione dell’intelligenza artificiale cambierà modalità e natura del lavoro. Come gestire la trasformazione è la questione a cui siamo chiamati.
Il falso mito liberista della bassa produttività
Imprese e Lavoro. Dobbiamo investire in ricerca e sviluppo in produzioni meta-sostenibili e ad usare intelligenza artificiale e robot per vivere meglio

Lavoratori in una fabbrica
Imprese e Lavoro. Dobbiamo investire in ricerca e sviluppo in produzioni meta-sostenibili e ad usare intelligenza artificiale e robot per vivere meglio
Pubblicato 4 anni faEdizione del 4 agosto 2019
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