Nell’immaginario comune, almeno in quello della società occidentale contemporanea, nessuno più dei fisici possiede l’autorità per dire come sia veramente fatto l’universo. Senza dubbio, la scienza occupa oggi un ruolo egemonico e la fisica si presenta come la ‘regina delle scienze’. In particolare, la fisica delle particelle, indirizzata allo studio dell’estremamente piccolo, ha vissuto a partire dal secondo dopoguerra una serie di successi e conferme che appaiono tali da giustificare questa posizione dominante. In una simile prospettiva, la scoperta del bosone di Higgs il 4 luglio del 2012 non può apprarire se non come l’ultimo stadio di una mirabolante ascesa consistente nell’accumulazione progressiva di conoscenza, forse indirizzata verso una «Teoria del tutto» capace di spiegare la realtà in ogni suo aspetto.

Chi si occupa di scienza – –irettamente, come scienziato praticante, oppure indirettamente, come filosofo e storico – sa però che questa rappresentazione è semplicistica. Innanzitutto, il bosone di Higgs non è stato osservato direttamente. Che questo accada è escluso in linea di principio per praticamente tutte le entità che giocano un ruolo esplicativo fondamentale nella fisica contemporanea. Piuttosto, si è raggiunto un altissimo livello di fiducia nel fatto che certi dati sperimentali raccolti lavorando all’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra non possano essere determinati da qualcosa di diverso: allo scenario contrario si attribuisce, al più, una probabilità inferiore a 7 su 10 milioni. In concreto, tutto questo non fa una grande differenza, si può ben dire che il bosone in questione esiste ed è stato scoperto. Ma è, al contempo, fondamentale rendersi conto del fatto che la scienza – proprio perché trascende inevitabilmente il puro dato osservativo – è sempre fallibile.

In effetti, i filosofi dibattono accanitamente in merito all’idea che la scienza abbia un accesso privilegiato alla verità. E se, nonostante gli incredibili risultati ottenuti attraverso il progresso tecnico-scientifico, si desse il caso che le nostre migliori teorie funzionano ma, di fatto, non descrivono fedelmente alcunché? E anche se tali teorie fossero rappresentazioni più o meno corrette della realtà, come potremmo verificarlo? I cosiddetti «antirealisti» ci ricordano quanto spesso nel passato la scienza abbia conosciuto dei successi, venendo però poi falsificata in base a osservazioni, esperimenti e/o sviluppi teorici successivi. Altri, seguendo Kuhn e, più in generale, l’opinione secondo cui il dato osservativo è sempre carico di presupposizioni teoriche, sostengono che la storia della scienza è contraddistinta da vere proprie cesure rivoluzionarie anche a livello linguistico-concettuale. Da ciò seguirebbe che, per esempio, Tolomeo e Copernico hanno letteralmente «vissuto in mondi diversi».

Considerazioni di questo tipo, almeno a parere di chi scrive, sono lontane dal costituire una base sufficiente per affermazioni di tipo postmodernista/relativista secondo cui il discorso scientifico è alla pari degli altri e i fatti e le entità di cui si occupano le scienze sono delle costruzioni sociali e culturali. Occorre però, soprattutto nell’ambito della divulgazione, trasmettere l’idea della complessità della ricerca scientifica, dell’aleatorietà dei suoi processi e della contingenza dei suoi risultati, sempre essenzialmente legati alla creatività e talvolta alla genialità, ma anche ai limiti intrinseci, dell’essere umano. Frank Close, fisico delle particelle che lavora a Oxford e notissimo divulgatore scientifico (ha vinto nel 1996 il premio Kelvin dell’Institute of Physics per i suoi «eccellenti contributi alla comprensione pubblica della fisica») fa proprio questo nel suo ultimo libro L’enigma dell’infinito. Alla ricerca del vero universo (Einaudi, pp. 250, euro 32, 00). Close sostiene da subito che «la natura ha già la soluzione», e quindi che l’impianto concettuale del libro è fondamentalmente realista: basato cioè sulla convinzione che ci sia una realtà oggettiva, indipendente dal soggetto che la conosce e che, almeno potenzialmente, può essere svelata da quest’ultimo. Allo stesso tempo, però, Close si pone come obiettivo quello di rappresentare tutti gli aspetti tipicamente umani – connessi cioè alla sete di conoscenza ma anche all’economia, alla politica, ai rapporti interpersonali, finanche alle motivazioni, alle storie e ai caratteri dei singoli ricercatori – che sono sempre in gioco nella ricerca scientifica. Secondo Close «La rappresentazione del cammino della scienza come una sequenza di grandi scoperte «…) è in realtà un tentativo di semplificare, con il senno di poi e in termini narrativi, la logica di tutta la saga. In pratica la ricerca scientifica è una serie di svolte e veri cambiamenti di rotta».

La serie di svolte e cambiamenti di rotta che l’autore ricostruisce per i suoi lettori, sempre ponendo al centro i fisici in carne e ossa invece di quelle entità astratte che chiamiamo «teorie», ha inizio negli anni quaranta del secolo scorso per giungere alle vicende recenti riguardanti i bosoni di Higgs. L’autore espone la «storia reale» dell’elettrodinamica quantistica, cioè della teoria dell’interazione fra luce e materia (fatto importante riguardo a quanto accennato poco fa: si tratta della prima teoria in cui relatività e meccanica quantistica convivono armonicamente); e della cromodinamica quantistica, teoria analoga alla precedente ma indirizzata alla spiegazione della struttura interna degli atomi.
Nella prima parte del libro («Genesi») viene introdotto il problema fondamentale (che, si noti, nonostante il titolo dell’opera, costituisce solo l’incipit della storia!): le prime formulazioni dell’elettrodinamica quantistica sembravano invariabilmente portare, al momento dell’applicazione, all’emergere di grandezze infinite, inutili per qualsiasi spiegazione e previsione e considerate semplicemente non fisiche dagli scienziati. Close illustra come, attraverso il lavoro indipendente – nonché eterogeneo quanto a metodologia e presupposizioni – di più ricercatori, si sia risolto il problema attraverso la cosiddetta «rinormalizzazione». Vale a dire, il cambiamento di scala in modo da utilizzare solo grandezze finite effettivamente note. Close descrive poi il lavoro compiuto su questa base per estendere la teoria iniziale alle interazioni nucleari forti, cioè alle forze agenti all’interno dei nuclei atomici, e a quelle deboli, responsabili di fenomeni come il decadimento radioattivo. Si passa poi agli anni ’60 e ‘70, periodo in cui l’attenzione degli scienziati si concentra sul ruolo della simmetria nei fenomeni fisici e in cui si definisce il concetto di bosone di Higgs al fine di mantenere il potere esplicativo della teoria senza ricadere nel problema delle infinità.

La seconda metà del libro («Rivelazione, o Apocalisse») racconta la storia più recente: l’introduzione dei quark, particelle che si possono considerare veri «mattoni fondamentali» della materia e che – inseparabili compagni di viaggio – non possono mai esistere isolati l’uno rispetto all’altro; l’unificazione di elettromagnetismo e interazione debole e la scoperta dei bosoni W e Z; la definizione della «cromodinamica quantistica»; e, infine, le recenti ricerche, coronate da successo, volte a individuare l’ultima particella elementare rimasta ipotetica (eccezion fatta per il gravitone, ma questa è un’altra storia…) – appunto, il bosone di Higgs. Si tratta di un’entità dall’importanza enorme: è grazie ai bosoni di Higgs, essi stessi privi di massa, che una proprietà essenziale come la massa è posseduta da altre parti di realtà: in qualche modo, siamo di fronte all’origine della «corporeità» e materialità della realtà in cui viviamo.

Al termine di un racconto che, oltre ad appassionarli né più né meno di un buon romanzo, darà a molti lettori una nuova prospettiva sulla scienza reale, Close chiede e si chiede «quali altri cose ha in serbo per noi la natura». Mentre i risultati ottenuti al Cern concludono un secolo di ricerche decretando la fine del problema originario attraverso un vero e proprio «falò delle infinità», le questioni aperte nella fisica (e, aspetto non meno importante, sulla fisica) rimangono numerose e profonde. Quali che siano gli sviluppi futuri – scrive Frank Close – «Per i fisici delle particelle e per tutti coloro che sono curiosi di saperne di più sulla possibile origine del nostro Universo fatto di materia, il 4 luglio 2012 segna la fine dell’inizio, non l’inizio della fine».