Poco più di cento anni fa, nella notte tra il 4 e il 5 aprile del 1921, la storia di Ellen West si concluse con il suicidio, dopo un peggioramento della sua condizione psichica, lacerata tra l’idea fissa di non ingrassare e il pensiero ossessivo del cibo. Antonella Moscati ne ricostruisce la storia in Ellen West Una vita indegna di essere vissuta (Quodlibet pp. 160, €15,00). Nata negli Stati Uniti in una famiglia benestante ebraica sul finire degli anni Ottanta del XIX secolo e trasferitasi in Germania all’inizio del XX, Ellen è parte delle «tante figure di casi clinici… dai nomi monchi o inventati» che – scrive l’autrice – «si librano sui vaghi confini che dividono il piano della realtà da quello dell’immaginazione, e quanto più approfondiamo la lettura, tanto più sembrano diventare immaginarie come personaggi di romanzi».

Questa impressione è ridimensionata, per il caso West, dalla pubblicazione nel 2007 dei suoi scritti diaristici, narrativi e poetici ( Ellen West, Gedichte, Prosatexte, Tagebücher, Krankengeschichte, Asanger), che contribuiscono a rafforzare il volto reale di una figura la cui notorietà resta affidata a uno pseudonimo. Si insinua, qui, il primo dubbio etico, che innescherà poi, nel corso del testo, una interrogazione sulla deontologia, sul metodo e sulle categorie teoriche dei terapeuti: è giusto mantenere nell’anonimato, senza riconoscerne lo statuto di autrice, oltre che di caso clinico, una donna che ha trovato una forma di soggettivazione della propria malattia nella scrittura letteraria? Che si sappia di lei «come di un’altra, come se fosse un’altra»?

L’interrogativo spinge Antonella Moscati a riscrivere il caso clinico di West intrecciando le scarse fonti a disposizione: gli scritti di Ellen stessa, i diari di suo marito Karl e soprattutto il testo del Caso Ellen West, di Ludwig Binswanger, ultimo psichiatra ad averla avuta in cura e direttore della clinica svizzera di Kreuzlingen, dalla quale la giovane donna uscirà pochi giorni prima della morte in uno stato di completa prostrazione psichica. Di quest’ultimo testo, dalle vicende editoriali complesse ma di cui oggi leggiamo in italiano l’edizione Einaudi (2011), Moscati conduce una critica metodologica serrata, il cui obiettivo polemico principale sta nell’uso terapeutico della Daseinsanalyse, ispirata alla filosofia esistenzialista di Heidegger. Secondo l’autrice, l’analisi condotta da Binswagner è non solo inefficace, ma «anti-terapeutica», poiché a causa di una gestione inadeguata della relazione con la paziente (e dunque dei processi di transfert e controtransfert) avrebbe corroborato l’associazione tra corporeità e colpa morale al centro dei pensieri ossessivi di Ellen West (così come di molte altre anoressie).

L’errore terapeutico è doppio: da un lato non si diagnostica la specificità dell’anoressia, già riconosciuta nel campo psichiatrico; dall’altro l’ispirazione filosofica esistenzialista si rivela esiziale, perché la prospettiva ontologica spinge Bingswagen a fornire «un’interpretazione delle malattie mentali … come modi esistenziali strutturalmente deficienti» e a sciogliere indebitamente la «relazione tra psiche e corpo che Freud ha costruito intorno alla nozione di inconscio». Così Ellen trova una sorta di autorizzazione alla morte proprio nella figura del terapeuta e in Karl, il marito, forse convinto dallo psichiatra stesso della inevitabilità e anzi dell’«autenticità» esistenziale dell’atto suicida.

Reinterpretando un caso di patente errore terapeutico nel passato, Antonella Moscati, oltre ad avere l’occasione di discutere la categoria di anoressia aggiornata alle teorie contemporanee e a dare una qualche forma di «giustizia» a Ellen West, sembra ribadire l’importanza di una prospettiva clinica libera da sovrainterpretazioni moralistiche e prescrittive: «non c’è deficienza ontologica … nelle patologie in generale, e tanto meno nel caso delle patologie psichiche». Un monito che, dopo l’«invenzione» della psicoanalisi, dovrebbe apparire anacronistico, ma che forse nel dibattito contemporaneo non lo è.