Tornano prepotentemente in scena i militari turchi, in passato padroni, tra violenze, abusi e violazioni dei diritti umani, delle sorti del Paese. Anche trent’anni fa presero il potere con un golpe.

La scorsa notte mentre chiudevamo questo numero del nostro giornale la situazione nel Paese era confusa, non era chiaro se dietro il colpo di stato ci fossero tutte le Forze Armate. Il premier Yildirim ha minimizzato l’accaduto, insistendo che si trattava non di un colpo di stato ma di un «ammutinamento» compiuto da un gruppo di militari e ha assicurato che il governo resterà al suo posto.

Il presidente islamista Erdogan, il Sultano atlantico, parlando attraverso un smartphone, ha cercato di ostentare sicurezza e ha esortato la popolazione a scendere in strada in suo sostegno. Non ha mancato di attribuire la responsabilità del golpe alla «rete gulenista», ovvero al predicatore Fethullah Gülen, suo accanito avversario. Ma le cose probabilmente stavano in modo diverso.

Il leader turco ad un certo punto avrebbe cercato di fuggire in Germania ma le autorità tedesche hanno negato l’autorizzazione all’atterraggio al suo aereo. L’impressione era che l’Esercito avesse il controllo del Paese. Questa mattina sarà tutto molto più chiaro. Sapremo che fine ha fatto Erdogan, dominatore della politica turca da oltre 10 anni.

Ciò che è accaduto conferma il fallimento del progetto neo ottomano di Erdogan che negli ultimi anni ha superato la misura, troppe volte, con una politica estera spregiudicata, senza esclusione di colpi, che alla fine si è rivelata fallimentare.

Il cambio di rotta avvenuto nelle ultime settimane, in particolare dopo la nomina a premier di Yildirim, con Erdogan che ha recuperato le relazioni con la Russia e Israele e avviato un tentativo di riallacciare i rapporti anche con l’Egitto e (in principio) con il «nemico» presidente siriano Bashar Assad, potrebbe essere stato giudicato velletario o tardivo dai comandi militari, spingendoli ad intervenire con l’uso della forza.

L’atteggiamento della Nato, di cui la Turchia è tra i membri tra i più importanti, sarà fondamentale per capire quanto appoggio esterno hanno avuto i vertici dell’Esercito prima di mettere in atto il loro piano. L’amministrazione Obama, che ha avuto contrasti con Erdogan sulle priorità in Siria, non ha condannato immediatamente il golpe e ha chiesto continuità e stabilità. Putin, con il quale il leader turco si era riappacificato appena qualche giorno fa, ha chiesto soltanto di evitare violenze e spargimenti di sangue.

L’instabilità di una Turchia lanciata allo sbaraglio in troppe occasioni, che aveva rotto le relazioni con due stretti alleati dell’Occidente, Israele ed Egitto, ha minato i consensi di cui, almeno per qualche tempo, aveva goduto Erdogan. Non tanto all’interno del Paese dove larghi settori della popolazione hanno appoggiato il suo progetto di una Turchia impegnata a recuperare le sue radici islamiche e a riprendersi un ruolo di primo piano nel Mediterraneo orientale.

È all’esterno che Erdogan ha compromesso la sua sorte politica, stringendo un’alleanza organica prima con il Qatar e più di recente con l’Arabia saudita. Paesi che pur mantenendo una stretta alleanza con l’Occidente contribuiscono all’instabilità della regione mediorientale in una nuova cornice in cui Stati Uniti e Russia dopo l’Iran cercano ora di trovare intese sulla Siria che non necessariamente, come voleva e sognava Erdogan, prevedono l’uscita di scena immediata di Bashar Assad.

Se oggi scopriremo che la Turchia è nelle mani dei militari e che Erdogan è stato costretto a fuggire, Assad potrà dire di essere sopravvissuto politicamente a tanti leader, soprattutto occidentali, che assieme al presidente turco avevano pianificato di estrometterlo dal potere. Con la fine di Erdogan crollerebbe anche il disegno dell’islamismo politico.

Il golpe in Egitto del 2013 e quello di ieri in Turchia hanno eliminato dalla scena regionale i due presidenti islamisti, Morsi ed Erdogan, che dopo le rivolte arabe del 2011 avevano cercato di scrivere un nuovo ordine mediorientale sotto l’egida dei Fratelli Musulmani.

Non è da escludere che l’esercito turco sia intervenuto anche di fronte all’incapacità di Erdogan di spegnere le rinnovate aspirazioni del popolo kurdo, non solo in Turchia, anche in Siria. I vertici delle Forze Armate potrebbero ora intervenire con ancora più forza e violenza per distruggere il sogno kurdo, facendo temere massacri persino più gravi di quelli commessi da Erdogan.