La bilancia pende sul piatto di al-Baghdadi: mentre il mondo plaude alla decisione della Turchia di aprire le frontiere a 150 peshmerga diretti a Kobane, sono mille i jihadisti stranieri che ogni mese entrano in Siria e Iraq. Lo fa sapere l’intelligence statunitense a cui si aggiunge l’allarme lanciato dall’Onu: sono almeno 16mila i miliziani stranieri nelle file dello Stato Islamico.

Arrivano da 80 paesi del mondo attirati dalle sirene della propaganda jihadista, sofisticata e «cosmopolita», e dalle ricchezze del califfo: si stima che nelle casse dell’Isis finisca un milione di dollari al giorno grazie al contrabbando di greggio, che si aggiungono ai 45 milioni accumulati con i riscatti per il rilascio degli ostaggi.

Quei peshmerga, ancora in attesa al confine tra Turchia e Siria, non faranno la differenza. Un altro errore di strategia della coalizione anti-Isis che aveva tra i suoi obiettivi principali l’interruzione dei viaggi verso Siria e Iraq dei nuovi jihadisti.

Il controllo di ampie aree a cavallo tra i due paesi permette al califfato di agire impunito. Così vengono alla luce altre fosse comuni in Iraq, a ovest di Baghdad: i corpi di 220 iracheni della tribù sunnita Albu Nimr, che si era opposta all’Isis, sono stati trovati giovedì in due fosse comuni, a Hit e Ramadi, nella provincia di Anbar. Molti di loro erano poliziotti o membri della milizia sunnita anti-Isis Sahwa, nata nel 2006-2007 quando anche la componente sunnita irachena si sollevò contro Al Qaeda, sperando in una maggiore considerazione politica.

Il massacro non aiuterà Baghdad a cancellare i settarismi interni: il mese scorso il premier al-Abadi ha proposto la creazione di milizie sunnite che affiancassero l’esercito regolare, mentre le milizie esistenti hanno più volte chiesto centrale armi e munizioni. Silenzio su tutta la linea.

Sulla questione è intervenuto anche il massimo leader religioso sciita in Iraq, l’Ayatollah al-Sistani, che ha messo da parte la sua tradizionale «riservatezza» politica per lanciare appelli a favore dell’unità del paese. In prima linea nella cacciata del premier al-Maliki, ieri è tornato a parlare: «Quello che viene chiesto al governo è di offrire aiuto immediato ai figli di questa tribù e di altre tribù che combattono l’Isis», ha detto ieri al-Sistani durante la preghiera del venerdì a Karbala.

Prove di riconciliazione anche in Siria: ieri l’inviato Onu Staffan de Mistura ha presentato al Consiglio di Sicurezza un «piano di azione» per «congelare gli scontri» a livello locale e permettere l’arrivo di aiuti e l’apertura del dialogo tra governo e opposizioni. Prendendo a modello Aleppo, ancora divisa tra aree in mano a Damasco e aree controllate all’Esercito Libero Siriano, de Mistura ha parlato della possibilità di stipulare accordi di cessate il fuoco a livello locale. Che magari evolvano in un dialogo nazionale.

L’ambasciatore siriano al Palazzo di Vetro, Bashar Jaafari, ha riportato la volontà del proprio governo di analizzare più in profondità la proposta. Difficile, però, che Onu e Stati Uniti accettino un piano che prevede il riconoscimento di Assad come partner in un’eventuale tregua. Dopotutto l’obiettivo di parte della coalizione anti-Isis è usare la guerra al terrore per rovesciare il presidente siriano.