Per quanto riguarda l’immigrazione l’Italia esce dal G7 di Taormina con la consapevolezza di essere più sola mentre l’Europa vede rafforzarsi le sue divisioni. Al di là delle parole del premier Paolo Gentiloni, che nella conferenza stampa finale del vertice ieri ha risolto la questione come «un punto chiuso da settimane, sul quale non c’è stato dibattito», la realtà è che le aspettative italiane di un maggiore coinvolgimento internazionale nel fronteggiare i flussi provenienti dall’Africa sono andate deluse. Non solo: più del generico impegno a difendere i diritti dei migranti più deboli che appare nel documento finale – impegno spesso utilizzato dai vari vertici, a partire da quelli europei, solo per giustificare nuove azioni di contrasto all’immigrazione – le parole con cui Donald Trump ha ridotto il dramma di chi fugge da guerre e povertà a una pura questione di sicurezza, rivendicando il diritto di ogni Stato a porre limiti all’accoglienza e a difendere i propri confini, non potranno non rafforzare quanti in Europa vanno propagandando da tempo le stesse parole d’ordine, primo fra tutti i Paesi del gruppo Visegrad. La linea americana potrebbe così diventare presto quella europea.

Chi rischia di pagare più di ogni altro questo fallimento è proprio l’Italia. Da tempo Roma spinge perché l’Unione europea si assuma maggiori responsabilità nella gestione comune dei migranti che partono dalla Libia. Ci provò a novembre del 2015 con un vertice Ue-Paesi africani a La Valletta e la creazione di un Fondo destinato a finanziare progetti di sviluppo nei paesi di origine e di transito dei migranti. Senza grandi risultati. Chiusa nel frattempo la rotta balcanica grazie all’accordo del 2016 con la Turchia, quella del Mediterraneo centrale è rimasta l’unica strada percorribile per quanti tentano di arrivare in Europa. Per provare ancora una volta a fermarli la Commissione europea a maggio dello scorso anno fece suo il progetto dei migration compact proposto da Matteo Renzi e promise 60 miliardi di euro in investimenti. A febbraio di quest’anno un nuovo vertice di Malta ha sancito la svolta, preferendo ai progetti di sviluppo ( i cui risultati, se ci saranno, si vedranno solo tra anni) la scelta di investire direttamente sulla Libia per fermare i flussi. Peccato che chi dovrebbe farlo, il governo del premier Serraj, si mostra ogni giorno sempre più incapace di controllare il suo territorio. Al punto che adesso, in un ultimo tentativo, il governo Gentiloni ha deciso di avviare una trattare con le tribù del Fezzan che controllano il sud del paese nordafricano e con i governi di Ciad e Niger per convincerli a sigillare le frontiere: soldi e mezzi per fermare i migranti rinchiudendoli in campi allestiti nei pressi dei confini.

Non volendo aprire vie legali di ingresso per i migranti, unica soluzione alle continue tragedie del Mediterraneo, Roma e Bruxelles sembrano più che altro affidarsi a una politica fatta di continui annunci ad effetto. Come quello di un accordo con il Mali per i rimpatri dei migranti irregolari, annunciato da Bruxelles alla fine dell’anno scorso e smentito da Bamako a gennaio di quest’anno.

I risultati di queste politiche si vedono tutti i giorni nei porti siciliani. E che dopo il vertice di Taormina l’Italia sia quanto meno più sola rispetto al passato, è più di una semplice possibilità. Anche alla luce della riforma del regolamento di Dublino, penalizzante per i paesi di primo arrivo alla quale Bruxelles sta lavorando da tempo.
Non a caso a lanciare l’allarme sulle possibili conseguenze di queste politiche è proprio chi – come le Ong – ogni giorno è impegnato nell’evitare nuove tragedie nel Mediterraneo: «Il fallimento del G7 di Taormina – ha denunciato ieri Medici senza frontiere – potrà solo causare più sofferenze, aumentare le morti in mare, perpetuare le terribili condizioni di accoglienza per migranti e rifugiati, nonché giustificare accordi inumani che esternalizzano la gestione delle migrazione a paesi insicuri».