I duri scalpitano. Reclamano misure punitive contro l’Italia disobbediente. La lettera di Tria è appena arrivata e già i Paesi che da sempre si mostrano più rigidi, l’Olanda e l’Austria, insistono per il pugno di ferro. «Questo bilancio non soddisfa gli accordi che abbiamo stipulato. Spetta alla commissione prendere provvedimenti», va giù secco il ministro delle Finanze olandese Hoetzka. Ancora più rigido l’omologo di Vienna Loeger: «Se il governo italiano non dovesse arrendersi causerebbe una battuta di arresto per l’area dell’euro. Mi aspetto che la commissione si mantenga ferma e rigorosa prendendo le misure necessarie».

I DUE FALCHI danno voce a umori largamente diffusi a Bruxelles. Nessuno ha preso sul serio le correzioni italiane, i 5 miliardi spostati sugli investimenti per il territorio e l’impegno a recuperare 18 miliardi dismettendo edifici. Né del resto l’Italia si aspettava che quelle modifiche bastassero a quietare la Ue. Sono state aggiunte soprattutto per una sorta di cortesia diplomatica, per evitare di rinviare la manovra senza modificare nulla. In queste condizioni è probabile che già lunedì prossimo la riunione dell’eurogruppo, con all’ordine del giorno l’unione bancaria, diventi l’ennesimo processo all’Italia e i liberali olandesi già chiedono un dibattito dell’europarlamento sul caso italiano.
I duri saranno accontentati. La procedura arriverà. Ma senza troppa fretta. I vicepresidenti della commissione lo fanno chiaramente capire, però senza forzare la mano. «Questi piani sono controproducenti per la stessa economia italiana», twitta Valdis Dombrovskis di fatto annunciando la nuova bocciatura ma senza spingersi oltre. «Bisogna rispettare le regole che noi stessi ci siamo dati. Fare debito con i soldi dei contribuenti non è un’idea intelligente. In Italia c’è un governo intelligente e spero che saranno in grado di trovare buone soluzioni», conferma l’altro vicepresidente della commissione, l’estone Ansip, anche lui calibrando i toni.

CI SONO MOLTE RAGIONI che suggeriscono all’intero establishment europeo di procedere con fermezza ma senza impazienza. Il primo è il ricordo indelebile dell’errore commesso con la Grecia. Se la Ue oggi vacilla è in larga parte proprio per l’inflessibilità odiosa mostrata allora. Stavolta tutto deve apparire diverso: l’Unione deve sembrare una madre severa ma giusta, non una matrigna feroce.

In secondo luogo uno scontro frontale con l’Italia, per quanto la Bce abbia già preparato lo scudo per evitare il contagio, resta rischiosa per l’intera Ue. La pericolosità aumenterà o scemerà a seconda dell’esito di altre partite, soprattutto la Brexit ma anche la soluzione della crisi tedesca. Va da sé che avere uno o tre fronti aperti sarebbe molto diverso. Dipenderà in buona parte dal quadro complessivo la maggiore o minore durezza delle sanzioni inflitte all’Italia. Ma per chiarire quel quadro, per scoprire se il Parlamento inglese accetterà o meno la soft Brexit di Theresa May o se il congresso della Cdu troverà una formula stabile per la Germania, serve tempo.

C’è poi di mezzo la campagna elettorale. La crisi italiana è anche un’occasione per spostare il centro dello scontro dall’immigrazione, terreno favorevole alle forze euroscettiche, alla difesa dell’euro a partire proprio dalla crisi con l’Italia. I tempi delle sanzioni saranno probabilmente calibrati in base a questa esigenza. Il 21 novembre la valutazione della commissione sulle varie leggi di bilancio avvierà la richiesta di procedura, entro gennaio il consiglio dovrà decidere e potrebbe fare in modo di far cadere il vero braccio di ferro proprio in piena campagna elettorale.

C’È INFINE UN ELEMENTO personale che riguarda il presidente della Bce. Voci ricorrenti a Bruxelles e Francoforte sostengono, probabilmente a ragione, che Mario Draghi non vuole vestire gli sgradevoli panni del boia del suo stesso Paese. Ma anche questo chiede tempo e impone di muoversi senza fretta.

Dal canto suo il governo italiano replica ai tamburi di guerra di Bruxelles a muso duro. Per un paio di settimane, accogliendo gli inviti di Mattarella, i due vicepremier avevano messo la sordina agli abituali ruggiti. La tregua è finita e lo scontro con la Ue riavvicina i due dopo le tensioni delle settimane scorse: «Bruxelles può scrivere tutte le letterine che vuole. Non ci rompano le scatole», contrattacca Salvini prima di giurare che, anche qualora la Lega andasse trionfalmente alle europee, non romperebbe l’accordo con M5S. Di Maio ostenta sicurezza: «Procedura d’infrazione? Lo dicono da tre mesi». In parte l’irrigidimento dei due è una scelta obbligata: in una campagna elettorale centrata sulla difesa dell’euro a partire dal caso dei reprobi italiani, non possono che puntare sulla carta della resistenza ai diktat stranieri. Una strada pericolosa per entrambi i contendenti.