Uno dei primi esempi di duello è l’episodio biblico di Giacobbe con l’angelo di Dio nel guado del fiume Iabbok (Genesi 32, 23-33). Dopo averlo colpito al nervo sciatico senza prevalere del tutto, l’essere numinoso intima all’avversario di lasciarlo andare: è ormai l’alba. Giacobbe chiede la sua benedizione e l’angelo lo ribattezza «Israele, perché hai combattuto con Dio e hai vinto». «Il duello nella letteratura» è l’argomento con cui Franco Cordelli, scrittore, critico e storica firma del Corriere della Sera, ha aperto nei giorni scorsi (insieme ad Alessio Torino e a chi scrive) il festival Urbino Teatro Urbano, organizzato dal CTU Cesare Questa dell’Università Carlo Bo. Gli incontri si sono svolti nell’ottocentesco Teatro Sanzio, eretto sul bastione dell’Abbondanza, da cui si snoda la flessuosa rampa elicoidale di Francesco di Giorgio Martini. Abbiamo in faccia Urbino afoso più che «ventoso» – Pascoli perdonerà il jeu de mots –, Cordelli sembra osservare la promenade percorsa da Vittorio Sereni quando era un soldato e in Frontiera diede conto delle «torri alte sulla memoria», trasalendo per l’agone contro l’«impeto delle ore».

Entriamo nel vivo del discorso con un ricordo biografico: è vero che lei è stato sfidato a duello da Carmelo Bene?
Credo fosse il 1974: fosse stato un anno o due prima, Carmelo Bene non mi avrebbe sfidato. Ma avevo da poco pubblicato Procida, dunque non ero un semplice cronista. Il duello si poteva fare. Così immagino ora. Fu l’ultimo duello dell’Ottocento. L’ultimo del Novecento non fu con la spada, o con la pistola, oggetti troppo raffinati o volgari per quegli anni. Fu con le mani, con i pugni, con i guantoni. L’ultimo duello del Novecento era un match, non so se quello tra Ali e Frazier, o quello a Mombasa – raccontato da Norman Mailer – tra Ali e Foreman. In quanto al nostro, al duello tra Carmelo Bene e me, tradizionale, canonico, marxista o liberale chi può dire, come dicevo fu l’ultimo dell’Ottocento perché di fatto non si fece. Bontempelli e Ungaretti non ebbero successori reali, diversamente non poteva essere: Carmelo Bene, risposi, aveva preso lezioni di scherma, io ero un ragazzo di strada. Sarebbe stato un non-duello, una sfida sleale, impossibile. Poi chi eravamo l’uno per l’altro? Ci ignoravamo. Continuai a ignorarlo fino al punto di recensire il suo Lorenzaccio da Alfred de Musset senza averlo visto. Per me, quel giovane genio pugliese neppure esisteva. Ero io a esistere per lui. Mi telefonò la Vigilia di Natale del Millenovecento… – non so che anno. Erano le nove di sera. Con una voce da comandante di traghetto disse: Voglio vederti! Quando? risposi. Sùbito. Ma io non posso, sto uscendo di casa per andare a una cena… Allora domani, domattina alle dieci. E così fu. Andai a casa sua, in quella casa dalle finestre chiuse, piena di oggetti che lui qualificò preziosi e che io non guardai. Parlammo fino alle dieci di sera, dodici ore di conversazione. Non so cosa fu, che razza di incontro. Se postumo, il duello fu quello; o se, in modo così imprevedibile, e così inverosimile, fu il sigillo di due anime gemelle».

Stando a uno studio dello storico marxista Victor Kiernan, il duello – nel significato di combattimento consensuale che ha l’obiettivo di ripristinare l’onore e dare soddisfazione – è nato in Italia, da qui si sarebbe poi diffuso a macchia in tutta Europa. Secondo lei, quali condizioni sociali e morali nel Medioevo hanno permesso il sorgere di questa pratica?
Questa domanda dovrebbe essere rivolta da Kiernan a un altro storico, magari non marxista. Il mio professore di storia e filosofia al liceo, Enzo Monferini, fu non solo un marxista, ma un partigiano che aveva realmente combattuto in Piemonte e ci aveva consegnato in modo preciso e vibrante la sua tradizione. Se non si fa la carità, figuriamoci i duelli. Questa domanda per me è come se piovesse dal cielo. Non riesco a immaginare. Perché l’Italia era come ancora oggi un paese di comuni, di spiccate individualità, di cortesie in ogni luogo? Ma in quanto a cortesie non era così anche la Francia? E in quanto a ponti levatoi per i castelli, in quanto a divisioni tra entità territoriali, non era così anche la Germania? No, non so rispondere.

La tranche di documenti letterari che lei ha scelto per le due lezioni urbinati ha riguardato principalmente racconti dell’Ottocento. Pensa che questo rilievo tematico abbia raggiunto nel secolo del Romanticismo ciò che i Greci definivano acmé, il punto culminante?
Sì, è di tutta evidenza che il duello, come confronto tra due individui, per qualunque motivo, di onore, di lealtà, di fede, di bandiera, di amore, è una storia che si chiude con l’avvento della democrazia. Ma il mio personale pensiero, in quanto scaturito da questa parola, duello, si formulò molti anni fa. Pensavo a me stesso in lotta con il mondo: ognuno di noi è in lotta con il mondo. Stilai, anche per gioco, o per mania di classificazione, un elenco molto più lungo di forme del duello, e per ognuna di esse elencai titoli significativi della modernità. Dico modernità perché teatro e romanzo sono la mia passione; naturalmente si potrebbe scendere negli abissi, non solo fino al Medioevo, ma fino alle Scritture, non solo le nostre, anche quelle di altre culture. Le forme di duello che avevo elencato e che non ho proposto – altrimenti avremmo dovuto parlare non per due giorni ma per due anni, o venti –, sono: il duello novecentesco, il duello con l’animale, il duello con Dio, il duello psicologico, il duello con la malattia, l’uomo contro la donna, il duello come sport, il duello con la società. Faulkner nel racconto L’orso o Gramsci nei Quaderni del carcere o Solženicyn in Reparto C, non sono essi stessi dei grandi duellisti?

Forse Il duello di Casanova (1780) dà una rappresentazione più realistica e letterale di come si svolgesse la singolar tenzone. L’antefatto lo conosciamo: Giacomo è a Varsavia, si accapiglia per una ballerina veneta con il nobile polacco Franciszek Branicki, lo sfida a duello. Impareggiabile seduttore, Casanova appare meno coraggioso del previsto ma l’episodio si risolve con un tempismo perfetto.
Davvero Casanova era poco coraggioso? Leggendo Il duello non l’ho pensato. Come escludere che lo si possa pensare perché abbiamo di lui un’immagine così diversa da quella di un uomo di duelli se non amorosi? Anzi, a pensarci bene la nostra immagine di lui non è neppure quella di un uomo da duelli amorosi. Alla fine, costui era Don Giovanni. Mi sembra che in tutta la Storia della mia vita (ma l’ho letta troppi anni fa) non vi siano mai situazioni estreme, neppure di fronte a una donna da conquistare. Casanova non è un conquistatore, è un conquistato, si arrende facilmente: e non perché ha paura, al contrario perché per lui coraggio e paura non esistono, non fanno parte del suo vocabolario, ovvero della sua mente. Allo stesso modo Il duello, che non appartiene all’Histoire de ma vie, ma che nella stesura la precede, esibisce una prosa che corre via gioiosa e veloce, come in nessuna scrittura italiana del XVIII secolo. Scorre, corre via, come corse lui da un luogo all’altro, irrequieto, instancabile, sempre inappagato, e poi subito appagato – e sempre così, di nuovo. Il duello lo accettò, non poteva darsi altra scelta. Ma non ho còlto segni di paura. Ho invece notato la ineffabile, incredibile quantità di cortesie (ecco il Medioevo di cui si parlava poco fa) che lui e il suo sfidante si scambiano non per eludere l’evento ormai prossimo, e neppure per ritardarlo, ma perché i due così erano. O forse si dovrà dire meglio: perché Casanova così era, una persona gentile, timida, amabile. Chi abbiamo incontrato nella letteratura e nella vita simile a lui? D’altra parte, è anche l’uomo della fuga dai Piombi. Per uscire di lì e buttarsi di notte nel cuore di Venezia un po’ di coraggio, in nome della libertà, forse ci voleva. O no?

La novella di Verga Cavalleria rusticana (1880) e il racconto di Svevo Una lotta (1888) inseriscono nel plot la traccia amorosa. Da un lato Alfio deve vendicarsi di Turiddu che ha sedotto la moglie Lola, dall’altro Arturo Marchetti e Ariodante Chigi si contendono la bella Rosina. Come accade anche in Senilità, la focalizzazione genettiana nel testo di Svevo è schiacciata sul punto di vista del solo Arturo. Gli altri appaiono all’orizzonte. L’ottica verista di Verga tende invece all’impersonale, alla tecnica dello straniamento. Quanto può incidere, in termini narratologici, la posizione dell’autore rispetto ai personaggi che si battono?
I racconti di Svevo e di Verga hanno in comune un’unica caratteristica, la brevità. Nel caso di Svevo perché è una delle primissime cose che ha scritto, ma è come se già avesse capito tutto di sé: una sintesi delle opere future. Nella Coscienza di Zeno il duello di cui racconta nel 1888 diventa quello ben più reale con la sigaretta, con il fumo. A Svevo premeva capire se stesso, nel 1888 era uno scrittore del secolo che sarebbe venuto vent’anni dopo; suppongo che anche a Verga interessasse capire se stesso, ma è come se si ritenesse ingombrante, così si mette da parte e guarda gli altri: li guarda con un colpo d’occhio, gli basta un’occhiata, la sua brevità è una pura intuizione. Arrivo a pensare che anche Cavalleria rusticana è in questo senso un racconto che fugge dall’Ottocento fingendo di adottarne il costume. In esso non c’è ragione che tenga, non ci sono che fatti, non c’è che un lampo.

Ora spostiamoci dalla posizione dell’autore verso quella dei personaggi. Nei Duellanti di Conrad (1908) – in realtà la traduzione del titolo è tratta dal film di Ridley Scott del 1977 – i due ufficiali francesi Armand D’Hubert e Gabriel Feraud si sfidano a loop per anni. Non si tratta di un singolo duello, ma di un continuum di incontri con un’accezione ovviamente simbolica, un po’ come lo scontro tra i sessi impersonato da Tancredi e Clorinda nel XII canto della Gerusalemme liberata. Alla fine D’Hubert, il quale di nascosto contribuisce al benestare economico di Feraud, gli scrive una lettera per avere la sua amicizia. Duellare – che è una forma metaforica di instaurazione dialogica/dialettica con l’altro – può significare anche volersi bene? Vengono alla mente l’exotopia e la trasgredienza di Bachtin: completare l’altro uscendo da sé per esaminare la sua prospettiva.
A Bachtin non avevo pensato, mi sembra giustissimo. Si va anche oltre Bachtin: perché D’Hubert accetta la «follia» di Feraud, è chiaro che rischia la vita pur di capire che razza di uomo sia quel tale che continua a sfidarlo. Vanno a vuoto quattro assalti, il quarto addirittura a cavallo. La ragione da cui parte la faccenda è del tutto futile, è ciò che la rende più significativa per D’Hubert (in fondo l’oggettivo Conrad assume il suo punto di vista, slitta in pieno nel Novecento in cui già si è affacciato) e per noi lettori. A parte il fatto che quando i due si trovano a combattere un nemico straniero, uno a fianco dell’altro da bravi commilitoni, da leali ufficiali, si aiutano… A parte questa ricorrente ma logica evenienza, è straordinario come perfino a cose fatte, quando i due giovani soldati sono uomini maturi e D’Hubert è prima innamorato e poi sposato, è straordinario che anche lui, dapprima stupito e disinteressato, ora rimpianga Feraud. Non potrà che accettare un quinto duello. Lo accetta appunto per capire – non, poniamo, per la gentilezza di Casanova. Che cosa muove Feraud? Non è, la sua, un’ossessione o qualcosa del genere? D’Hubert è come pensasse: non mi ha contagiato? Ciò che chiamiamo ossessione, o fede in un altro contesto, non è una forma dell’uomo che si sprigiona, si libera di sé trasmettendosi all’altro, così contagiandolo? Stando alla realtà di ciò che Conrad racconta, in ultima analisi tutto dipende da dove si è nati e vissuti e dai caratteri. Tutto è storia, nulla è natura. Feraud è meridionale e passionale; D’Hubert settentrionale e freddo, «un uomo che vuole capire». I duelli si danno per ragioni anche di questo genere.

La letteratura russa con Puškin, Lermontov, Turgenev e altri si è spesa moltissimo su tale argomento. Persino Cechov lo affronta con un racconto lungo, quasi un romanzo, del 1891 che vede contrapporsi due filosofie di vita: l’una lirico-romantica, incarnata dal molle Ivan Laevskij, l’altra darwinista, impersonata dal duro Von Koren. Le atmosfere sono allucinate, crepuscolari, dentro il grandioso e muto paesaggio del Caucaso. Come spesso accade nelle opere cechoviane, lo scontro è un necessario «punto di rottura» che alleggerirà le nervature psicologiche giunte a un momento di svolta, incidendo sulle opzioni di vita degli attanti. Cosa ne pensa dell’idea di «duello funzionale» (breaking point) e «duello teoretico» (disputatio)?
Cechov nel Duello riassume e trascende Puškin, Lermontov, Turgenev, Kuprin. Nei dodici titoli delle conversazioni urbinati, cinque erano di scrittori russi. Ne traiamo una deduzione forse corriva: che cultura e temperamento in Russia sono ben diversi che nel resto d’Europa. Ma perché Cechov trascende gli altri esempi proposti? Perché, come lei ha ben detto, il duello funzionale è tale in quanto sbaraglia il duello teoretico, il duello tra gli attanti. Il furore, la rabbia, l’impeto sono un elemento di incontenibilità. È la prorompente imposizione della soggettività. Ancora una volta, in pieno Ottocento siamo già nel Novecento! In Puškin lo siamo addirittura in modo profetico riguardo la propria vita… È meraviglioso, nel racconto di Cechov, che sia l’ultimo atto di un romanzo che potrebbe essere benissimo un appunto per Il giardino dei ciliegi. Tutto è calmo e anche noioso. Sembra che nulla dovrà mai succedere. Siamo nella pura vita di società: il dottore, il diacono, la coppia sbagliata, lui che si annoia, lei che lo tradisce… Cosa di più comune e di più cechoviano? Poi, all’improvviso (anche in Dostoevskij, che qui non c’è, nasce tutto all’improvviso) la bufera. Laevskij è languido fino all’inverosimile, è lirico come lei dice, o romantico. Von Koren, un matematico, non ha alcun languore, è preciso, è duro. Un’opposizione, un confronto che si potrebbe dire classico. È ragionevole che si traduca in un duello? Questo interrogativo nel racconto non c’è. Cechov non è uno scrittore esplicito. Noi tendiamo a supporre che non sia ragionevole. Perché allora accade se non per le imperscrutabilità della vita, che costituiscono il punto di rottura citato nella sua domanda? O, volendo a tutti i costi razionalizzare, il fatale passaggio alla modernità, cui tanto Turgenev ambiva, qui ancora non è avvenuto.

Cechov ci ha condotti all’idea di un vis-à-vis filosofico. Heinrich von Kleist va ancora oltre. Nel suo Duello si avverte una decisa problematica teologica. Il tema è la difficoltà di interpretare la volontà divina, ma c’è chi lo definisce un whodunit, un «giallo a enigma». Infatti, la contesa tra il conte Iacopo Barbarossa e Federico di Trota è di tipo ordalico: l’esito è deciso direttamente da Dio e non dal valore dei rivali. A suo giudizio in che modo Kleist risolve il dilemma?
In quanto a Kleist… Kleist per me è il più grande, anche se non è giusto ragionare in termini di paragone. Lo è per due ragioni. Per l’asciuttezza del suo procedimento: non c’è indugio, non c’è un aggettivo in più, una notazione di costume o colore che distragga. Eppure non c’è, che so, la sia pur deliberata aridità di Verga. Tutto in Kleist è pregnante del senso che scaturisce dagli eventi, e tutto conduce non a una domanda, a una domanda qualunque, per esempio: che cos’è il duello? perché un duello? Tutto conduce alla domanda ultima: chi siamo noi sulla Terra? Ciò che ci accade, ci accade perché così vogliamo che sia, perché lo decidiamo noi, o perché è il destino che così vuole? Il destino, che sciocca parola… La parola giusta è Dio. Ciò che Kleist chiede, a sé stesso e ad ogni lettore, è se Dio c’è. Meglio ancora, chi Lui è? Chi è Dio?