Sono le immagini patinate di uno spot pubblicitario del tutto simile – nel sapore e per lo stile – alle commedie musicali di Busby Berkeley ad accompagnare la voce asciutta e cadenzata di Guy Debord: «l’organizzazione spettacolare di questa società di classe comporta due conseguenze che sono ovunque riconoscibili: da una parte, la falsificazione generalizzata dei prodotti così come dei ragionamenti; dall’altra l’obbligo, per tutti coloro che pretendono di trovarvi ogni loro bene, di tenersi sempre a gran distanza da ciò che ostentano di amare, poiché non hanno mai i mezzi, intellettuali o di altro genere, per raggiungere una conoscenza diretta o approfondita, una pratica completa e un gusto autentico». Così ha inizio Réfutation de tous le jugements, tant élogieux qu’hostiles, qui ont été jusqu’ici portés sur le film “La société du spectacle”, quinto e penultimo lavoro cinematografico dell’autore parigino.

Troppo onesto agli occhi del potere, troppo coerente nel mondo intellettuale, troppo elaborato per il grande pubblico. Per non finire costretto, egli stesso, in quel sistema che aveva instancabilmente contestato, per tutta la propria vita Debord ha dovuto – e senza dubbio anche voluto – rispondere tanto alle accuse sdegnanti mosse contro la sua opera (e, a ben vedere, contro la sua persona) quanto a quelle lodi piene di esaltata approvazione e, proprio per questo, prive di valore.

È certo difficile scrivere di un uomo che disprezzava, apertamente e senza remore, la stampa «per quello che dice e per quello che è», ma l’uscita della traduzione italiana – la pubblicazione francese risale a ventun anni fa, per Gallimard – di Questa cattiva reputazione… (Postmedia, pp. 78, euro 9,90) è una buona ragione per provare a farlo. Ultima opera di Debord, questo libello (pressappoco come avveniva in Réfutation) pone sotto esame le aspre critiche formulate dai mediatici – durante i cinque anni precedenti alla prima pubblicazione dell’opera – nei confronti delle teorizzazioni e della vita stessa dello scrittore.

Ben lontano, tanto nella sua articolazione quanto nella composizione, da una excusatio non petita, dall’auto-assoluzione di un uomo oramai sconfitto, questo volumetto (scritto con una ironia forse inaspettata) dice ancora molto riguardo alla società dello spettacolo. L’autore riesce a trasformare con successo la propria posizione da quella di «oggetto da indagare» in quella di «materia specchiante», sulla quale proiettare i meccanismi e le insanabili contraddizioni della società. «In questa sede, – afferma nella conclusione del libro – mi è piaciuto citarmi in più occasioni. Non ignoro che molti troveranno questo fatto scioccante. Però nessuno sarebbe turbato – e non sarebbe neanche stato utile farmi questa cattiva reputazione – se mi fossi trovato, come gli altri, nell’impossibilità di citare ancora oggi quello che avevo pensato in precedenza».

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Le molte critiche mosse a Debord e qui riportate «con precisione (…) e in ordine cronologico, che è la cosa più imparziale», sono sempre analisi intenzionate: a coglierlo in fallo, a metterne in discussione la moralità, a inventarne la contraddittorietà del pensiero, a produrne la corruzione intellettuale. A un uomo che, prima di tutto, si è sempre impegnato «semplicemente (a) fare quello che (amava) di piú» viene progressivamente (ma con violenza) sostituita l’immagine di un bieco approfittatore, di un individuo che ha sempre operato calcolando il proprio beneficio. D’altro canto, non vi è nulla che faccia più paura di una intelligenza implacabilmente coerente con se stessa e poco affascinata dalle sirene del potere e della fama, nulla appare più sovversivo dell’integrità di chi sceglie di vivere e di agire, semplicemente, «essendo quello che è».