La contrapposizione tra lavoro e ambiente che viene agitata nella vicenda delle acciaierie di Taranto non è isolata né isolabile. Si tratta di una tra le tantissime manifestazioni della contraddizione di fondo dello sviluppo capitalista.

Consistente nel crescente sfruttamento e mercificazione del lavoro umano e delle risorse naturali. Contraddizione sempre più prorompente nel corso dell’età industriale e giunta oggi ad un punto limite invalicabile.

Infatti, dopo la ristrutturazione dell’ultimo quarantennio, svoltasi all’insegna del neoliberismo più sregolato ed irresponsabile, il sistema ha raggiunto un grado di concentrazione tecno-produttiva e finanziaria tanto potente da consentire ai gruppi dominanti di svuotare la politica delle sue funzioni primarie di controllo e scelta nell’interesse generale.

Scene come quelle di operai che polemizzano per difendere il proprio posto di lavoro, viso a viso, con mamme preoccupate per la salute dei loro bambini rappresentano nel modo più emblematico questo pericoloso svuotamento. Una politica ridotta a mera compensazione a valle degli squilibri prodotti dal sistema o affatto supina ai suoi interessi e strategie che credito può avere presso i cittadini? Che sicurezza può dare?

In Italia, come in molti altri paesi, a cominciare proprio da quelli del capitalismo storico, è in atto una vera e propria crisi di legittimazione delle istituzioni politiche. La storia, anche recente, insegna che in crepacci di questo genere la democrazia sprofonda. Il che non comporta necessariamente una dittatura. Bastano ed avanzano quelle esangui forme di rappresentanza in cui il consenso elettorale, invece che strumento, diventa fine di un’azione politica autoreferenziale. E l’autoreferenzialità è il sintomo primo e più chiaro della crisi di legittimazione. Non c’è bisogno dell’atlante per vedere quanto siano diffuse le democrazie meramente formali, alternate a regimi corrotti ed oppressivi.

Come si è potuta verificare una deriva simile?

Il blocco di potere dominante sulla scena internazionale ha raggiunto una forza senza precedenti nella storia del capitalismo attraverso quattro strategie principali.

La prima è la riproposizione sempre più aggressiva del rapporto sviluppo-sottosviluppo che permette ai paesi economicamente, tecnologicamente e militarmente più forti di detenere il monopolio dei prezzi sia delle materie prime dei paesi meno sviluppati, sia dei propri prodotti e tecnologie. Quando questo non basta, si procede alla rapina delle prime e all’imposizione dei secondi, con ogni mezzo. Segue la delocalizzazione produttiva nei paesi con ampie riserve di forza lavoro a bassissimo costo e passibile di super-sfruttamento. Ad essa si accompagna l’automazione microelettronica della produzione, tanto accentuata da consentire massima riduzione, intercambiabilità e precarizzazione della manodopera impiegata. Infine il potere raggiunto dal capitale finanziario ne fa il regolatore dei rapporti interni all’intero sistema economico.

Il risultato è una mega macchina del potere insofferente di ogni mediazione sociale e politica che possa comportare forme di controllo dei modi di determinazione del profitto.

Senonché proprio questo strapotere ha finito col provocare squilibri che riproducono, in termini divenuti insostenibili, la contraddizione originaria, ovvero l’oggettivazione, sfruttamento e mercificazione di lavoro e natura, fino alla loro reciproca estraniazione e contrapposizione.

Occorre quindi denunciare con forza una falsa antinomia che serve solo a giustificare interventi settoriali e subordinati agli interessi dominanti. Mentre è impellente il compito di ristabilire un rapporto armonioso tra il lavoro, quale strumento della produzione e riproduzione delle condizioni necessarie all’esistenza della specie umana, e la natura che la rende possibile.