Se è terribile il dramma di chi è costretto a spostare la propria vita oltre un confine – a causa di una guerra, di una carestia, della mancanza di prospettive nel suo Paese – è ancor più terribile il dramma di chi viene scacciato. E ancora più devastante è questo dramma se chi viene scacciato dal “suo” Paese, da quella nazione non è nemmeno riconosciuto come cittadino.Può andarsene, anzi deve, ma quasi certamente non avrà più il diritto di tornare.

È questa la condizione dei Rohingya, una minoranza musulmana del Myanmar che in quel Paese non ha diritto di cittadinanza. Considerati immigrati clandestini venuti dal Bengala, in virtù della loro lingua e del loro credo religioso, questa gente non ha una patria ed è sostanzialmente apolide. La stragrande maggioranza dei Rohingya vive da anni fuori dai confini birmani, da cui è stata scacciata dopo la decolonizzazione, e, dall’agosto scorso, non resta in Myanmar che qualche centinaio di migliaia di persone del milione e più che erano fino al 2016: vivono nella paura o nei campi profughi interni gestiti come prigioni a cielo aperto.

L’anno si concluderebbe con una speranza se fosse credibile il piano firmato da Aung San Suu Kyi con il suo omologo bangladese e che prevede, entro la fine di gennaio, l’inizio del rimpatrio degli oltre 600mila Rohingya rifugiatisi in Bangladesh dove già ne vivevano circa mezzo milione. Ma poiché il termine rimpatrio appare improprio per chi una patria non ce l’ha, quel piano sembra per ora solo la foglia di fico necessaria a far dimenticare la vicenda. Si può infatti tornare in un luogo dove il villaggio è stato bruciato, le messi raccolte e i campi, coltivati da generazioni, probabilmente riassegnati? Si può tornare per rivendicare casa e terreni senza avere un documento che attesti non solo la proprietà ma la cittadinanza stessa? E infine, vuole il Myanmar davvero riaccettare quelli che non considera neppure figli illegittimi?