È notizia di questi giorni che Moody’s ha declassato la Cina, ritenendola poco affidabile visto il mostruoso debito da essa accumulato. Il governo (ovviamente) protesta contestando la metodologia di calcolo.

Quasi dieci anni sono passati dallo scoppio della Grande Crisi globale e sembra che il tempo non sia trascorso. Quasi non ci ricordiamo più di cosa hanno combinato le agenzie di rating. Si tratta di soggetti privati che forniscono periodicamente delle pagelle sulla solidità finanziaria di aziende e Stati. Più le garanzie sono solide più il soggetto in questione verrà ritenuto affidabile sui mercati e potrà attirare investimenti. Il problema è da una parte che, in quanto fortemente collegate al profitto speculativo rappresentano un po’ la finanza che giudica se stessa; Moody’s per esempio è posseduta da Moody’s Corporation, nel cui azionariato compaiono come maggiori proprietari Berkshire Hathanway, società finanziaria fra le più grandi al mondo capitanata da Warren Buffet (il terzo uomo più ricco del mondo), Vanguard Group, uno delle più grandi società d’investimenti al mondo e BlackRock, altra nave ammiraglia della finanza speculativa. Dall’altro tali agenzie, al centro di macroscopici conflitti d’interesse, hanno fatto errori di valutazione clamorosi, dichiarando sicure banche e aziende che pochi giorni dopo si sarebbero dimostrate completamente marce.

Se ci sono tutti i motivi per non fidarsi troppo di tali istituti, la valutazione non pare dar luogo a sospetti di esagerazione. Se nel suo ultimo testo il grande economista G. Arrighi vedeva ancora una differenza dell’assetto economico cinese rispetto al capitalismo, oggi si fatica davvero a non considerare come essenziale l’omologazione del paese asiatico ad esso. Non solo per la grande quota di investimenti occidentali in Cina, diventata la mecca (come è risaputo) di molte delle maggiori multinazionali manifatturiere. Ma anche per aver riprodotto la dinamica dell’economia a debito in tempi serratissimi e proporzioni mostruose. L’indebitamento pubblico è basso (circa il 20% sul Pil, anche se secondo altre valutazioni oltrepasserebbe il 60%) ma quello delle famiglie è stato calcolato arrivi al 43% sul Pil. Vista la consistenza dell’economia del paese comincia ad essere una cifra rispettabile (il Pil è circa 11mila miliadi di dollari, a fronte di una crescita di un risicato 7%). Ma l’Oedc in un rapporto di marzo scorso calcolava il debito delle imprese non-finanziarie al 160% sul Pil.

Le stime della Banca Mondiale sono simili se non peggiori. Tutto ciò porterebbe la mole del debito (pubblico, privato, e aziendale) sopra il 200% (e secondo alcuni verso il 250%!) sul Pil. A questo andrebbe aggiunto il giro d’affari del settore bancario non ufficiale, detto sistema bancario ombra: trattasi di istituti che sebbene operino in tutte le attività di credito non hanno una reale regolamentazione. Nei paesi occidentali è riconoscita ufficialmente dal 2007-08 la pericolosità di una crescita di questo tipo di attività perché la legge normalmente fissa limitazioni e vincoli per limitare i rischi delle attività bancarie, che invece il sistema ombra è lietissimo di ignorare per macinare profitti – aumentando però la fragilità di tutto il sistema, dando luogo a spiacevoli effetti domino. Nessuno sa la dimensione di questo fenomeno in Cina, secondo alcune analisi 8-20% sul Pil, per altre fino a 70-80%.

La crescita della mole di indebitamento e di attività creditizie sregolate è un sintomo abbastanza sicuro di finanziarizzazione spinta dell’economia e di bolle finanziarie. Per questo forte è il timore che una improvvisa crisi cinese riporti il mondo in una cupa recessione; in virtù del forte controllo politico esercitato sul paese dal Partito Comunista Cinese (che non ha mai abolito i vincoli alla circolazione dei capitali) ci si può attendere che il contagio verrebbe contenuto, ma non l’effetto domino di un crollo della crescita del paese sull’economia mondiale. E in quasi dieci anni non abbiamo elaborato nessuno strumento per ridimensionare veramente la mole della finanza.