Chi non ha mai percorso dei sentieri di montagna? Sono diligentemente marcati con delle indicazioni che aiutano il viandante ad arrivare alla meta prefissata. Io per natura ero un po’ discola nel rispettare le segnaletiche. Curiosa da sempre, seguivo suoni di ruscelli e voci di animaletti che volevo sorprendere. Non m’importava arrivare più tardi degli altri in cima alla collina.

Anche sulla strada della mia vita ho fatto come cappuccetto rosso. Ho fatto di più, ho perduto il cuore per una persona che diventò ragione di vita per me. Dall’esempio di mia madre, che allora non viveva più, ho tratto il coraggio di farlo. Innamorarsi di una persona con abilità limitate suscita qualche perplessità e preoccupazione in chi ti conosce. Hai riflettuto bene? Fu la domanda con uno sguardo preoccupato. Mi vedevano felice e questo bastava a tutti, almeno credo.

Inizialmente sembrava complicarsi il rapporto tra me e Piero. Non voleva un legame di responsabilità, sancito pubblicamente, il matrimonio. Il suo amore arrivò al punto di non volermi legare sé. Lui era già allora orientato verso «un porto non lieto, ma sicuro». Troppe erano le avvisaglie di una patologia, la distrofia, che aumentava varie disabilità fisiche nel suo corpo. Io non lo amavo per compassione, ma volevo che trovasse ancora gusto di vivere nonostante tutto. Ancora non mi conosceva. Lui cacciatore, amante della natura non doveva marcire in un letto. Come superare gli ultimi gradini della scala per poter uscire insieme a lui? E come fargli venire la voglia di uscire? Sorpresa! Uno scivolo rimovibile e una leggerissima canna da pesca. Alla nostra prima gita insieme al suo papà fu molto scettico, ma alla fine contento, e una uscita tirava l’altra, come le ciliegie. Mi facevano molta pena le larvette di mosca che mettevo all’amo, ma ben presto diventò una necessaria abitudine. Le ricettine di trote ai frutti secchi o alle erbette furono graditissime. Avevo vinto! Aveva vinto la voglia di vivere! E io avevo imparato tutto sulla pesca. Anche il suo amore per la fotografia e la pittura ci fece trovare nuove strade per poter ancora lavorarci. Le giornate diventarono piene di soddisfazioni sempre nuove.

Assistere nello studio ragazzi svogliati e studenti volenterosi, godere dei loro successi agli esami, allestire una mostra fotografica, poter partecipare a una esposizione di quadri e riuscire a venderne qualcuno erano piccole soddisfazioni, silenziosamente condivise. Lo studio di filosofia alternato a quelli di programmi per computer e tutto il resto allontanava sempre di più la spada di Damocle della distrofia, apparentemente per me. Oggi so che lui viveva per me. Non aveva mai perso la severità del suo futuro. Sapeva nascondermelo. Con molta dolcezza mi preparò e mi chiese di non portarlo in prontosoccorso, se fosse sopravvenuta una crisi respiratoria. Ero d’accordo. Ci parve tanto semplice morire.

Ma la realtà fu ben diversa di quella che immaginavamo. Piero mi chiese aiuto. Chiamai il soccorso. Era difficile, difficilissimo capire, come agire in modo giusto. Tutto da imparare. In rianimazione: non mi poteva parlare, aveva un tubo in bocca attraverso il quale una macchina gli soffiava l’aria nei polmoni. Non mi doveva vedere triste. Potevo piangere fuori sul corridoio, dopo la visita. Non doveva vedermi con gli occhi rossi. Poi venne la scelta, no, l’imposizione, unica scelta possibile: la tracheotomia. Dopo tre giorni di discussione tra noi due, come meglio possibile nelle sue condizioni, e i medici. Poi con disappunto mi fece firmare. Lo vedevo e lo percepivo indifeso, mi sentivo impotente e in colpa nei suoi confronti. La sua vita diventò una condanna. Si fece portare Lucrezio «De rerum natura». Se lo fece leggere da un’infermiera, quando era libera. Sicuramente non apprezzava la catechesi del cappellano sul valore del dolore e la salvezza nell’accettazione. Poi tornò a casa. Era un figlio della terra, dove tutto muta, nulla si distrugge, ma serve per far nascere altro. I suoi occhi mi parlavano di ribrezzo di se stesso.
Evitava di guardarsi perfino nel riflesso di un vetro. Il mio istinto cercava soluzioni. Il rispetto per la sua persona mi suggerì di trattarlo il più naturale possibile, come sempre. Imparai tante cose nuove, come medicare la stomia, fare la bronco aspirazione, cambiare i filtri all’«uomo bionico», come cambiargli posizione, alzarlo, tutto in modo accelerato e la nostra vita diventò di nuovo non solo accettabile, ma anche stimolante. Si risvegliò il suo humor, il ventilatore automatico era diventato «la mamma». La nostra gatta era la caposala, mi avvisava, se il ventilatore andava in allarme. Anche la tecnica medica per noi era diventata una delle cose, inventate dall’uomo, accettate con ironia, come supporto necessario.

Vivevo quasi in una ebbrezza di felicità per la vita riacquistata da Piero. Lui era consapevole delle sue condizioni e spesso aveva cercato di portarmi alla realtà. Sentiva che la distrofia voleva il suo fio. Durò pochi anni e mi risvegliò alla brutale realtà un grave peggioramento fisico. Chiese l’uso di un sondino temporaneo per poter nutrirsi senza danni per i suoi polmoni. Era iniziata una lenta ma continua «decostruzione» di un corpo che non riusciva più a dare piacere di vivere, ma diventava via via ostacolo per uno spirito che in tutto il suo percorso lo aveva dominato, curato, educato per attuare il suo piano di vita. Era giusto dare a questo strumento di vita il meritato riposo. «Non c’è più nulla da inventare. Abbiamo avuto tutto dalla vita. Dobbiamo capire che è tutto finito.» Non voleva indugiare sullo sfacelo fisico e reclamava il diritto per il suo corpo di poter concludere come era nella sua natura: morire.
«Dopo capirai». «Sei un soldatino». Solo lentamente capii queste parole che sono profetiche per la mia persona. Compongo in breve un buzzle: Piero era co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, per anni lavorava su un progetto: una legge per una «morte opportuna», i tempi vitali si erano troppo ristretti, rimaneva il suo corpo per terminare il lavoro: il dovere di morire, per far capire.

Copyright: © Mina Welby, 2013