Sono passati oramai cinquanta anni dalla distruzione di Israele a opera del quinto corpo di armata quando «la commissione scientifica» autorizza la pubblicazione del memoriale di Yehonathan, il figlio minore del re dell’ultimo regno di Giuda. Con il passo e il linguaggio di una cronaca dell’antichità inizia così Il terzo tempio (Giuntina, pp. 244, euro 17) di Yishai Sarid, avvocato israeliano cinquantatrenne autore nel suo paese di oltre cinque romanzi tradotti in molte lingue e di cui in Italia è stato pubblicato nel 2013 da e/o Il poeta il Gaza.

Il terzo tempio ha vinto in Israele nel 2016 il Premio Bernstein, mentre Sarid sarà ospite domani a Venezia, per incontrare il pubblico a Ca’ Foscari, nell’ambito del festival Incroci di civiltà.

IN UN GIOCO DI SPECCHI che inizia dal linguaggio e che apre al disorientamento, la vicenda si svolge in un futuro non troppo lontano ma di incerta collocazione. Immaginifico e inquietante Il terzo tempio indaga nelle pieghe più profonde e meno indagate dell’ebraismo nella narrativa contemporanea per descriverne uno dei possibili esiti con il ripristino del culto del tempio di Gerusalemme.
Niente a che spartire però con la rivendicazione di quelle frange dell’ebraismo che ancora oggi ne propongono realmente la ricostruzione, piuttosto una critica feroce. Perché il culto del Tempio riguarda l’Israele dell’antichità – quella che precede la conquista romana e la distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme ad opera di Tito nel 70 dell’era volgare – prima che gli ebrei divenissero Diaspora e prima che venisse attuata quella gigantesca e straordinaria rivoluzione che trasformò definitivamente l’ebraismo da religione di un luogo, a una civiltà capace di declinarsi nel tempo, rinunciando ai sacrifici per rendere centrale la parola della rivelazione e la sua interpretazione. E non solo ma nella misura in cui riflette sul futuro di Israele come stato ebraico i tempi del libro si flettono ancora, non cronaca del passato, non fantascienza di un mondo futuro ma riflessione di stringente – e cocente – attualità.
La struttura del libro è la cronaca, privata e politica, che il principe Yehonatan scrive degli ultimi giorni dell’ultimo regno di Giuda. Ma a concorrere al disorientamento vi è non tanto le difficoltà della prigionia in una fortezza di Gaza, ma l’urgenza del dovere di testimoniare in quanto unico sopravvissuto alla distruzione: anche questa eco ricorda simili e tutt’altro fantasiose cronache di ebrei di altri tempi.

LE CITTÀ COSTIERE di Israele – quelle dalla vita culturale laica e vivace – sono state distrutte da un attacco nemico in grande scala: pochi sopravvissuti stentano tra le macerie. A Gerusalemme re Yehoaz, dopo una rivelazione nel deserto, ricostruisce il tempio a immagine e norma delle istruzioni bibliche. «Finalmente le parole della Bibbia erano divenute realtà e potevamo rispettare tutti i precetti – scrive il principe di Sarid. Niente era perduto – prosegue – c’era sempre speranza e se non in questo mondo, allora nell’al di là. Gli occhi di tutti gli pseudo intellettuali di Tel Aviv non erano stati in grado di scorgere l’enorme forza spirituale racchiusa nel Tempio. E la loro fine era nota a tutti».
Un mondo immaginato sano e purificato non solo con i sacrifici del tempio ma con i guardiani della fede, il Re infatti «era convinto che la Torah – i primi cinque libri della Bibbia – il Tempio e il lavoro potessero curare il popolo dai mali della diaspora e dal marciume di Tel Aviv».
È una ritualità insieme moderna e arcaica, rigorosa e intransigente, che pure consente di restituire speranza: per il giovane principe è il più nobile dei compiti. Una monarchia autoritaria che restituisce sicurezza a un paese in preda al caos e alla disperazione, in cui i media e la tecnologia sono al servizio del potere e il dissenso può essere paternamente perdonato solo con delle pubbliche scuse e ammissioni di colpa altrimenti vi è la morte.
Eppure, lentamente e inesorabilmente, dubbi sotto forma di un angelo malvagio, rendono il principe sempre più inquieto e dubbioso. Può Dio essere rinchiuso nelle mura di un tempio? La presenza divina, la Shekhinà – che in alcune interpretazioni dell’ebraismo ha carattere femminile – può contenere la sua collera?

SARÀ UN BAMBINO a indurre il giovane principe a opporsi a un destino segnato; non basterà un angelo – antipatico, feroce e con il volto aquilino che dal fondo del letto spiegherà: «io non cerco un senso, una ragione. Eseguo semplicemente incarichi». Ma a nulla varranno le richieste dell’angelo. Yehonatan si interrogherà a lungo ma la certezza nella volontà del padre, Re e Messia, non consentirà agli interrogativi di trovare risposte.
Il terzo tempio cadrà sotto i bombardamenti nemici e sotto la collera divina, nei tempi della guerra, della violenza e della vendetta la Shekhinà si è ritratta dalla tenda che ne lasciava intuire la presenza.