Corre l’anno 2012. E la voce off del regista Miguel Gomes intona l’elegia iniziale di Tabu, uno dei film più stupefacenti del decennio, un film grigio eppure a suo modo uno schermo verde, come il coccodrillo che appare qui e là, ora in carne e scaglie, ora in plastica, ora su una giostra di un centro commerciale, o nell’immaginazione di Aurora che gioca a dare un nome alle forma delle nuvole nel cielo. «Sotto la pioggia e sotto il sole bruciante, una creatura melanconica percorre per mesi la giungla e la aride lande. Nel cuore del continente nero, né le fiere né i cannibali sembrano intimorire l’intrepido esploratore». Chi è quest’esploratore? E cosa sta cercando? Cosa lo spinge ad affrontare le intemperie, portando con sé dei «pesanti strumenti tecnici di precisione»?

UNA FORZA simile spinge lo stesso Gomes a far uscire il cinema portoghese d’autore da Lisbona e a ricollocarlo, non senza difficoltà, in un angolo estremo d’Africa, dove la nazione portoghese aveva un tempo le sue colonie. Un gesto curioso, inatteso e azzardato. Intriso d’una tonalità dolorosa per quello che lui stesso chiama «paradiso perduto» e che ad uno sguardo superficiale potrebbe sembrare un elogio di quel passato coloniale.
Lo stesso anno in cui Gomes cominciava a scrivere il suo Tabu, James Gray pensava già Ad Astra, che però ha dovuto attendere sette anni prima di poter essere prodotto.

Sulla carta, si tratta di due viaggi assolutamente opposti. Uno europeo, l’altro hollywoodiano. L’uno rivolto al passato, l’altro al futuro. L’uno verso la montagna, la giungla, il cuore più antico del mondo. L’altro lanciato in avanti, verso l’etereo, il vuoto, la fine del mondo. Gomes punta tutto su un patto tra il film e lo spettatore, patto che non è fondato sulla verosimiglianza (che non ha i mezzi tecnici per realizzare) ma sulla semplice credenza. Gray, pur non potendo contare su una super produzione alla Marvel, immerge lo spettatore in una realtà ricreata dagli effetti speciali.

IN COMUNE ad entrambi c’è una tonalità dissonante. Entrambi inventano due figure, quella dell’esploratore da un lato e quella del colono dall’altro, vicine eppure incompatibili. Il colono e l’esploratore possono fare un pezzo di giungla o di spazio insieme. Essere amici ed amarsi. Cantare e ballare. In Tabu, lo strano avventuriero Ventura diventa l’amante d’una fazendera. Fugge con lei, non per accasarsi, che non sarebbe da esploratore, ma per abbandonarla poco dopo…

Anche Gray separa nello spazio siderale l’esploratore dal colono. Il primo è andato ai confini del cosmo. Non per colonizzare ma solo per sapere, dedicandosi ad una ricerca senza fine. Il secondo è suo figlio. Lavora diligentemente su una sorta di torre di Babele, e quando la forza militare spaziale Space com (assai simile alla Space Force inventata da Trump e dal suo vice Pence) lo invia ad uccidere il padre, accetta la missione, di cui capisce a poco a poco il senso.

In questo doppio dramma c’è una domanda cinematografica e una domanda politica. La domanda cinematografica è: fare cinema oggi è essere colono oppure esploratore? Ed evidentemente la malinconia appare insieme all’idea che esista un paradiso perduto (nella storia del cinema o nel suo avvenire) in cui si può essere entrambi. Il genio di Gomes sta nel fatto di aver filmato non quel paradiso ma questa malinconia come un tabù, un luogo perduto che si può rispettare solo profanandolo, svelandone il lato illusorio pur coltivandone il mistero. Suonando, come fa Gomes, due melodie, una infantile e una matura.
Si tratta di un doppio passo che consiste nel mettere in scena l’azione dentro una cornice contemplativa. E che proprio nei momenti di pura azione trova il modo di fermare il tempo.

È CURIOSO ritrovare la stessa dialettica in Ad Astra, dove la più classica delle scene d’azione (l’inseguimento nella vallata) diventa il luogo dove il film si siede a riflettere sul proprio destino. Nel bel mezzo di una «monument valley» lunare, il rover dove viaggia il Roy McBride (Brad Pitt) è attaccato da un gruppo di indiani dello spazio, che si avvicinano cavalcando le dune bianche. Tutto questo movimento non eccita minimamente il nostro eroe che anzi, con piglio filosofico, quasi commentasse un dipinto, dice tra sé e sé: «Eccoci di nuovo a combattere per le risorse, cosa diavolo ci faccio qui?». In un altro punto del film, Roy fa una breve ma potente allusione ad una guerra combattuta nell’artico.

Si tratta di un riferimento ad un passato fittizio che non è altro se non il nostro presente. Proprio in questi anni le varie potenze mondiali progettano di appropriarsi e sfruttare i nuovi spazi che il cambiamento climatico mette a disposizione. La melanconia è allora il sentimento di smarrimento davanti a questo ripetersi dell’assurdo. Non c’è nulla di più deprimente che la nostra incapacità di tener conto delle lezioni del passato. Perché andare avanti ad esplorare, se tutto il futuro non è altro che una ripetizione del passato? Se di questo passato non riusciamo a fare alcun uso?

AFFATICATO dalla calura, o forse affranto da questi pensieri, l’intrepido esploratore di Gomes si concede una pausa. È seduto e beve un sorso dalla sua borraccia, quando una donna, vestita con la sobria eleganza che si addice ad un lutto, gli appare e dall’alto di una collina gli dice: «Puoi scappare quanto vuoi, puoi andare tanto lontano quanto ti pare, ma non puoi scappare dal tuo cuore». Sembra rivolgersi a Clifford McBride, l’esploratore di Ad Astra che è fuggito da casa abbandonando moglie e figlio, ed è salito su un razzo sperando di trovare un futuro diverso. Anche per lui la lezione è la stessa: ci siamo solo noi. Non resta allora che smettere di sognare coccodrilli e tornare a casa. Il bello di questi personaggi sta nella loro testarda e indomita risposta: se è così, meglio morire.

2.continua