Dopo la presidenza Trump, anche per come si è conclusa, passeranno molti anni prima che un qualsiasi rappresentante degli Stati Uniti possa dare lezioni di democrazia in giro per il mondo. Una fortuna, ma anche un problema. Lo stesso Biden, che in questi giorni si sta comportando con più dignità e senso della misura di molti suoi compagni di partito, troverà molte difficoltà ad allentare la stretta degli alleati che eredita dal suo predecessore: Mohammad Bin Saalman (principe ereditario dell’Arabia Saudita); Al Sisi, in quanto difensore dei diritti umani, noto soprattutto in Italia; Netanyahu, o chi eventualmente lo sostituisse a praticare una politica di apartheid nelle “sue” terre; un Erdogan che assomma le aspirazioni ad un nuovo sultanato all’appartenenza alla Nato.

Come reimpostare i rapporti con la Cina e con la Russia, ma anche con l’Iran, in modo da resistere alla tentazione diffusa, di una classe dirigente trasversale, di disporre di nemici indispensabili per giustificare la continuità di colossali spese militari, senza soffocare voci ed istanze democratiche presenti in quei paesi.

Problemi che l’imminente inquilino della Casa Bianca difficilmente potrà risolvere, ma anche nostri, europei ed italiani. Basta osservare, in maniera scevra di strumentalità, alcune ripercussioni intorno o dentro casa nostra. I nostri fratelli britannici, ormai separati, con l’incremento della pandemia si vedono costretti a subire l’umiliazione del proprio primo ministro che, dopo essersi legato mani e piedi al carro di Trump, appare preda di una vera e propria sindrome di piazzale Loreto: di coloro che, fino alla vigilia plaudivano il dittatore per poi collocarsi in prima fila a dileggiarne il cadavere (in questo caso politico).

Pur se anch’egli prigioniero di un’antica, datata sudditanza nazionale nei confronti di Washington, più dignitoso, quanto criticato, risulta l’atteggiamento di Giuseppe Conte, presidente del consiglio italiano. Egli si è giustamente congratulato con le istituzioni e il popolo americano che hanno dimostrato la forza di respingere la reiterata candidatura di Trump, augurando buon lavoro al neo eletto Biden. È seguita, da parte sua, la condanna dell’assalto alla democrazia, non soltanto statunitense, costituito dall’occupazione del Congresso da parte di una folla guidata da una masnada di razzisti, neofascisti e violenti, più discutibilmente non citando il ruolo di sobillatore giocato dalle denunce di presunti brogli del presidente ancora in carica.

Tutto ciò si traduce, nel teatrino della politica nostrana, in accuse strumentali di trumpismo latente di Conte, alimentando la richiesta – giuridicamente insostenibile come argomentato da Luciano Violante (non proprio un tifoso dell’attuale governo) – della delega ai servizi segreti, da parte di Matteo Renzi, a favore di qualche atlantista di sicura fede (sono stati fatti i nomi di Minniti, Pinotti e Guerini).

Su questa e su altre richieste ugualmente pretestuose da alcune settimane pendono le sorti del governo in carica, in piena pandemia e, di conseguenza, delle proposte economiche italiane all’Unione europea, con il risultato certo di confermare i peggiori stereotipi nei nostri confronti.

La crisi della democrazia negli Stati Uniti è tutt’altro che risolta. Anche se il tramonto elettorale e politico di Trump è assicurato, non lo è il pericolo derivante da oltre 74 milioni di suoi elettori (il 70% dei quali convinti dalle sue menzogne), in buona parte vittime di una diseguaglianza in continua crescita, aizzati da una guida eversiva e violenta ad una guerra tra poveri.

Per questa semplice constatazione, Fabrizio Barca è stato diffusamente redarguito mentre, in Italia e altrove, manca un richiamo all’urgenza della riforma di assurdi meccanismi elettorali statunitensi che hanno agevolato le pur pretestuose denunce di Trump. In Italia e in Europa s’impone, invece, una profonda revisione di dogmi che ostacolano, dall’epoca della guerra fredda, una piena sovranità democratica di mezzo miliardo di persone. In particolare, per quanto riguarda il nostro paese, le concessioni da parte dell’attuale governo – si ricordino le parole di Di Maio all’epoca della sua costituzione – hanno solide radici in un passato anche prossimo che ha avuto come protagonisti gli attuali suoi critici.

Si pensi al ruolo dei nostri servizi nel c.d. Nigergate che ha contribuito a giustificare la seconda guerra del Golfo; al caso Abu Omar riguardo a cui un’esemplare azione giudiziaria è stata di fatto annullata da segreti di Stato e rifiuti di estradizioni di agenti statunitensi attivi su suolo italiano; alle guerre in Afghanistan e Libia in cui l’Italia è stata trascinata da una presunta lealtà atlantica.

Dalla conferenza di Messina in poi (1955), l’unico antidoto a questa subalternità non soltanto italiana, è costituito dalla prospettiva di un’unificazione politica dell’Europa, senza cui quel mezzo miliardo di persone continuerà ad essere privo di voce a livello globale, il loro territorio teatro di contesa da parte di Stati Uniti, Cina, Russia, persino Turchia.

Dopo quanto è avvenuto a Washington, è anche evidente che la lotta contro la diseguaglianza, quale fondamento di democrazia, dipende in sempre maggiore misura da quanto riusciremo a costruire in questa parte del mondo.