Un panorama nuovo ha cominciato a stagliarsi davanti ai nostri occhi nel momento in cui il salariato, per alcuni secoli obbligato al lavoro industriale e per altrettanti secoli tenacemente impegnato a lottare contro di esso per emanciparsene, si è progressivamente trasformato in un soggetto che «desidera» il proprio impiego. La apparente miseria cognitiva della vita fordista, dentro la ripetitività di un automatismo di fabbrica che pretendeva di sopprimere ogni livello riflessivo, è stata soppiantata da un nuovo terreno economico-produttivo che colonizza l’esistenza delle persone. Allo stesso tempo, con l’affermazione del capitalismo finanziario il desiderio invade il territorio del mercato e il mercato quello del desiderio. All’interno di questo processo, lavoro e autorealizzazione finiscono per mescolarsi, con l’effetto di una assenza di distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro, veicolando simboli e valori capaci di imporsi sulla sfera più intima dei singoli, così da condizionarne azioni ed esperienze.

Per decodificare l’ingresso in quella che diffusamente viene definita «economia del desiderio», nella tossica assenza di separazione inconscia tra lavoro salariato e desiderio che viceversa aveva retto nel corso dei secoli passati, negli ultimi tempi si è fatto ampio ricorso alle teorie psicanalitiche. Il giovane economista e filosofo francese Frédéric Lordon nel suo libro Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo (DeriveApprodi, pp. 216, euro 16. Da segnalare l’intervista pubblicata il 2 Aprile del 2015), tradotto da Ilaria Bussoni, facendo leva su una inclinazione costruttivista e sulla filosofia di Baruch Spinoza, muove da una osservazione: «Il capitalismo contemporaneo ci mostra un paesaggio passionale molto ricco e ben più contrastato di quello del tempo di Marx». Perciò, secondo l’autore, è necessario «combinare lo strutturalismo dei rapporti di produzione con un’antropologia delle passioni. Marx insieme a Spinoza». I quali possono contribuire a focalizzare il «problema della partecipazione politica all’organizzazione dei processi produttivi collettivi e dell’appropriazione dei prodotti dell’attività comune, in altri termini quello della cattura del soggetto da parte del desiderio-padrone».

Monoliti a confronto

Resta da capire che cosa oggi possa accumunare il salariato fordista, arruolato per poter avere accesso ai mezzi che consentono la sua riproduzione, all’apparentemente «felice dominato» contemporaneo disposto alla collaborazione. Anche i più ortodossi dovranno ammettere le complicazioni che ha assunto il rapporto tra i «monoliti capitale e lavoro», come li definisce Lordon, visibili nella disponibilità a concedere sempre più tempo, attenzione ed energie al lavoro, trasferendo «affezioni» dall’ambito riproduttivo a quello produttivo. Come accade, insomma, che il lavoro accetti di andare a braccetto con il capitale?
Una prima spiegazione sta in questo: lo schema binario delle classi, dice l’autore, ha risentito dell’emergere nel processo produttivo dei «quadri», «strani lavoratori salariati collocati materialmente sul fronte del lavoro e simbolicamente su quello del capitale, nello stesso momento».

Si potrebbe, allora, notare la perdita di centralità del lavoro salariato e la rilevanza della figura del «precario-impresa», quel «lavoratore autonomo» eterodiretto, ibrido etimologico ed esistenziale che si situa a cavallo tra il ricatto della condizione precaria e il consenso all’autoimpiego e all’autosfruttamento. A questo andrebbe aggiunta la storica ambiguità del lavoro «intellettuale» che fatica da sempre a cogliersi come momento del processo produttivo, anche se è costretto, per trovare conferme alla propria specificità, a immergersi nell’ideologia dominante dei «talenti» e del «merito», che legittima diseguaglianze e genera una weltansauung dolente e a tratti autocompiaciuta del dono dell’individualizzazione che l’inflessibile flessibilità finisce per regalare. Per motivi diversi, queste soggettività si prestano a essere il prototipo di quel «dominato felice» che il capitalismo si sforza di edificare. Ma felici lo sono davvero?

Un problema di servitù

L’antropologia delle passioni di matrice spinoziana deve dunque intersecare la teoria marxista del lavoro salariato, «offrendo l’occasione di pensare d’accapo cosa siano lo sfruttamento e l’alienazione, ovvero di mettere di nuovo in discussione il capitalismo, nel duplice senso della sua critica e della sua analisi».
Ci si sbarazza in fretta dell’idea della «servitù volontaria» di Etienne La Boétie, «ossimoro del quale l’epoca attuale vorrebbe fare la chiave di lettura del rapporto salariale e dei suoi recenti sviluppi manipolatori»: resta infatti inspiegabile il perché si dovrebbe autonomamente volere una condizione indesiderabile senza ricorrere alla «descrizione dei rapporti di produzione capitalistici, nella fattispecie salariali, che configurano i desideri e le strategie attraverso i quali raggiungerli». Effettivamente anche il testo di La Boétie rivela la struttura gerarchica della servitù, dunque catene di dipendenza, mentre resta aperto il tema della autodeterminazione e della responsabilità dell’individuo. Viceversa, il concetto spinoziano di conatus, «forza desiderante al principio di qualunque interesse, desiderio-interesse al principio di qualunque servitù», può essere usato per descrivere il meccanismo che porta all’alienazione. Le passioni possono divenire un giogo. Ci si farà legare se la corda è quella giusta.

Ovviamente Lordon non nega il fatto che per vincolare il lavoro servano anche altri legacci. La passione triste della paura di rimanere senza un lavoro ha, ad esempio, un peso all’interno della descrizione di questa nuova antropologia del «dominato felice». Inoltre, il capitale finanziario, nella forma della liquidità «intesa come possibilità di uscire in qualunque momento dal mercato azionario», alimenta l’immaginario di un radicale individualismo.

La rivincita degli scontenti

Una scrittura appassionata, trascinante, quella di Lordon. Che pone tuttavia un problema enorme.

Lordon mette sullo sfondo del suo «modello di desidero» la spinta del denaro. Ma anche questa spinta si è esaurita, cioè si è estinto il criterio che consentiva il comando sulla forza lavoro attraverso un regime monetario. Questo criterio è venuto meno dal momento che il controllo monetario si è reso del tutto astratto e infatti esplode in tutta la sua maligna raffinatezza anche la questione della gratuità del lavoro. La produzione diventa coestensiva alla riproduzione, ovvero assistiamo a un progressivo coincidere, sovrapporsi, saldarsi della «vita» con/sul lavoro. Sia dal punto di vista del tempo e dal punto di vista delle qualità che veniamo indotti a implicare dentro di esso.

Tuttavia, qualcosa è cambiato da quando si è cominciato a scandagliare lo stato di sfruttamento intensivo non del lavoratore ma della persona, all’interno di un lavoro che si pretende completamente soggettivato, mentre l’altro lato del dispositivo di precarietà si scatena con violenza attraverso la mortificazione soggettiva (emarginazione e declassamento) e l’inibizione dell’autonomia personale.

Si badi bene, Lordon ha tutte le ragioni a descrivere le sfumature soggettive che hanno a che vedere con il desiderio, con la spinoziana «potenza di agire», che vengono mobilitate dai processi produttivi contemporanei. Tuttavia, la affezione per il lavoro, la passione, che in qualche modo è direttamente tirata in mezzo dal paradigma del capitalismo biocognitivo e dal lavoro socializzato, si rivela solo una distorsione prospettica. Anche per evidente incapacità delle cosiddette «economie avanzate», con il passare degli anni, in modo sempre più vistoso, le produttività individuali non paiono affatto sollecitate da meccanismi partecipativi e/o da pulsioni creative ma dominate da apparati repressivi. La crisi economico-finanziaria, il meccanismo del debito, oltre ai già citati processi di precarizzazione, sono costruzioni concrete, generate non per dispiegare ma per piegare. Il sistema solo apparentemente ha bisogno di lavoratori e lavoratrici motivati e realizzati, senza arrivare ad affermare «felici». In realtà, ama l’arena dove si è costretti, faticosamente (e il piacere?), a competere per «essere visti» e nella quale, a lungo andare, il desiderio avvizzisce. Il governo della «vita» è il perno dell’impianto, elemento a un tempo simmetrico e supplementare all’antico «sfruttamento».

La classe pericolosa

Si può così affermare che la disponibilità a immettere soggettività (desiderio) nelle maglie del capitale vada ricondotta sempre più esattamente agli schemi dei modelli ri-produttivi connessi alla cooperazione sociale che vengono sfruttati dal capitalismo contemporaneo. Il neoliberismo riconosce che il valore sta in un investimento di desiderio, perciò lo stimola ma vuole al contempo controllarlo. Ed è così che oggi può essere meglio svelato l’inganno di un lavoro produttivo fintamente modellato sull’idea del «dono» e della «cura», la cui motivazione, in realtà, è assente poiché manca la possibilità di un rispecchiamento, denso di senso, negli «altri», mentre l’Io è continuamente sfidato da un regime di visibilità costante. Davvero è «desiderabile» tutto questo?
Alla fine, Lordon stesso pensa che ci sia modo di uscire da questo circuito, facendo leva sugli «scontenti»: «Quale sarà il principio strutturante del nuovo antagonismo? Ancora una volta gli affetti. Per la precisione l’urto tra i felici che non vogliono cambiare niente e gli scontenti che vogliono altro». Gli scontenti, e potremmo aggiungere i non-felici, i non-adattati, quelli che si mantengono capaci di «leggere» i propri desideri, ecco la nuova «classe pericolosa» che minaccia il capitale, fuori da ogni lineare ricomposizione di classe a cui ci ha abituati il passato. Sta a noi la capacità di affermare la nostra indisponibilità a una colonizzazione dell’affetto. Sta a noi inventare e investire su forme di riconoscimento inconoscibili al capitale. Sta a noi questa «piena riappropriazione della potenza» che continua a esistere anche nel regno del desiderio-padrone.

È ancora lo Spinoza dell’Etica a suggerire a Lordon: «quanto maggiore è la tristezza con tanta maggiore potenza di agire l’uomo si sforzerà di allontanare la tristezza». Volendo essere il più possibile pragmatici, la forza delle false ideologie neoliberiste connesse al desiderio (merito, talento, godimento) appare fortemente incrinata dall’impoverimento, dalla svalorizzazione, dall’esclusione. Ma non sarà solo la negazione a condurre all’azione quanto piuttosto la ricerca – e infine il vero riconoscimento – di quelle matrici comuni del vivere che stanno alla base della produzione cooperativa contemporanea, dentro una storia passionale collettiva.