Targhette su croci di caduti ignoti: La gloria lo crocifisse; Per mia madre mi baciò la gloria; Una favilla sol della tua gloria; lieto firmai col mio sangue il giuramento; Spezzarono, perché non piegai… Diana Borsi, madre di Giosuè, dedica al museo della guerra di Gorizia una foto del figlio: la scrittura è larga, tremante con ripensamenti. ”del mio figlio adorato Giosuè Borsi eroicamente immolatosi a Zagora il 10 novembre 1915”.

La scrittura di Guido Ceronetti pare imitare i movimenti di macchina del cinema e così in rapida
panoramica registrò, nel suo “Viaggio in Italia”, compiuto all’inizio degli
anni ’80 ed ora rieditato con nuovi supplementi e appendici da Einaudi, la sua
visita nel territorio dell’Isonzo, teatro di guerra della carneficina mondiale
del 15 – 18. La guerra iniziò però un anno prima, senza far satira anche nelle
tragedie l’Italia ha sempre mostrato il suo ritardo.

Dunque: ventiquattro anni
dopo da quel passaggio e nel centenario di quella “storia dal volto inumano”,
Ceronetti calca di nuovo il palcoscenico di quell’orrendo “teatro” e lo fa da
artista di strada, con i suoi poveri mezzi e il suo Teatro dei Sensibili,
ospitato nel più prestigioso dei teatri italiani: il Piccolo Teatro di via
Rovello.

La cacofonia simbolica è talmente potente che “il dramma impossibile”
sul quale si alza il fondale dipinto con il profetico “La guerra” del Doganiere
Rousseau è solo il prologo: immediatamente dimenticato come gli oggetti e i
personaggi del teatro ceronettiano appena escono di scena. Ed ecco perché la
ballerina ignota nerovestita (Elisa Bartoli), incarnazione terrena della
“guerra”, nel suo vorticoso e frenetico sabba della morte (ma anche della vita,
del coraggio, della solitudine e della fratellanza e solidarietà) non abbandona
mai la scena.

Non può farlo, pena il fallimento della “ricostruzione” dell’
orrore, preannunciato dall’immortale brindisi degli ufficiali del IX
battaglione di fanteria leggera dello Yorkshire, comandato a combattere e ad
essere letteralmente annientato dall’esercito tedesco appollaiato a Fricourt.
Era il 1 luglio del 1916 quando venne pronunciato il loro “Quando si alza il
tiro” – e dal quale Ceronetti preleva il titolo, insano epitaffio, della sua
opera, e si consente il vezzo di alzare la coppa: lui, smaccatamente
pirandelliano, autore mancato in scena, facilitatore e manovratore sia degli
attori sia dei testi chiamati a raccolta, la cui forma (monologo, dialogo, a
parte) è dettata dall’episodio, dal singolo accadimento più che dalla
successione drammaturgica d’azione.

Il groviglio concettuale di citazioni, da
Ungaretti a Zweig, da Celine a Junger, e ancora da se stesso poeta “in
maschera” e traduttore in limine del “salmo” che, tra inni nazionali e canzoni
patriottiche (dedicati a tutti i “piave” che mormoravano), crocifiggono il
soldato “migliore del mondo”, non arriverà a sciogliersi se non nella
conclamata follia di quei giorni, lontani ma non troppo. Fabio Francione

Quando si alza il tiro di e con Guido Ceronetti e il Teatro dei Sensibili
Milano, Piccolo Teatro Grassi fino a domenica 5 ottobre