Terrore quasi ancestrale, per cui mancano le parole, la perdita di un figlio proprio per la sua natura «mostruosa» è un tema che accomuna decine di film e romanzi, canzoni e performance attoriali: dallo Sean Penn e la sua rabbia omicida in Mystic River di Clint Eastwood all’esorcizzazione dell’angoscia da neo padre di Nanni Moretti in La stanza del figlio. Di peggio c’è forse solo la scomparsa, il non sapere che sorte sia toccata a un bambino svanito nel nulla. Anche in questo caso la lista di opere che si sono confrontate con l’angoscia della perdita accompagnata dall’incertezza è molto lunga: come con tutti i grandi dolori degli esseri umani, l’arte vi ha attinto a piene mani. Ma per portarci in quale direzione?

In Chorus di François Delisle, proiettato oggi all’Institut Francais di Milano nell’ambito delle Giornate del cinema quebecchese in Italia, il percorso e la destinazione sembrano coincidere, perché il mistero viene svelato dalla stessa sequenza che apre il film. Il piccolo Hugo è scomparso già da dieci anni, e i genitori hanno cercato in posti diversi la loro ancora di sopravvivenza: lui è fuggito in Messico dove la vicinanza dell’oceano lenisce il suo dolore; lei ha continuato la vita precedente, la sua carriera di corista di musica sacra, in una ripetizione della routine quotidiana che maschera appena la mancanza di ogni senso.ù

La prima scena che vediamo è proprio l’interrogatorio in carcere del carnefice di Hugo, che confessa di essere l’autore del rapimento e indica il luogo dove trovare le sue spoglie. A differenza di tante altre opere non c’è investigazione, nessuna detection, nessun mistero. La ricerca e la speranza sono relegate al fuori campo, al passato; al cuore della storia c’è solo l’elaborazione di un lutto che diventa cosa certa col rinvenimento delle ossa di Hugo, in seguito al quale i due protagonisti si ricongiungono per affrontare la scoperta di cosa era accaduto dieci anni prima. Già in Bambini nel tempo di Ian McEwan era stata fatta una simile operazione: dissezionare con una precisione da entomologo ciò che resta delle vite di chi ha subito un’esperienza del genere.

La ricerca del colpevole, la suspense causata da domande a cui si vuole dare risposta – chi, come, perché? – smorza infatti l’angoscia, portandoci a guardare oltre il presente, ad aspettare la compensazione di un dopo che promette delle risposte. Perfino nel cupo The Changeling di Clint Eastwood il desiderio di svelare un mistero colma in parte il vuoto aperto dalla tragedia che mette in moto il film: la scomparsa del bambino della protagonista. E non solo nella fiction: la cronaca nera è piena di resoconti di simili eventi, sia per la curiosità morbosa che per l’umano desiderio di assistere a uno scioglimento positivo del dramma. Negli Stati uniti, la tragedia del celebre aviatore Charles Lindbergh tenne banco per anni sui rotocalchi: nel 1932, la scomparsa del figlio e il successivo ritrovamento del suo cadavere fu rinominato addirittura il crimine del secolo.

Decenni dopo il romanziere Philip Roth userà proprio quell’evento per portare a risoluzione il suo distopico Complotto contro l’America, dove immaginava che Lindbergh vincesse le elezioni presidenziali al posto di Roosevelt.

In Chorus non c’è però vendetta, speranza o risoluzione, solo il dolore che rende le vite dei gusci vuoti, e lo stesso paesaggio – che sia la neve del Canada o le spiagge assolate del Messico – ha una pesantezza quasi palpabile. Eppure, è proprio all’apice della sofferenza che la vita ci sorprende, per il solo fatto di continuare. Così, come in The Tree of Life o in Bambini nel tempo, non cercare consolazioni fornisce la consolazione più grande: la celebrazione del mistero della vita che continua, degna ancora di essere vissuta.