Un festival politico. È da sempre una rivendicazione per la Berlinale anche se spesso nella selezione questa specificità si ferma ai soggetti forti, ai temi di attualità. Bastano oggi per un cinema politico? O serve qualcos’altro? C’è su questo una bella riflessione nella mostra del Forum Expanded, AntiKino (The Siren’s Echo Chamber), dove dalla bandiera americana un po’stracciata, installata da James Benning – titolo dell’opera: glory – utilizzando le riprese delle telecamere di sorveglianza nel pomeriggio del 13 settembre 2018, prima che l’uragano Florence devastasse il Nord Carolina. Si arriva al raro materiale fotografico con cui Billy Woodberry costruisce A Story from Africa, ovvero la tecnica del colonialismo, qui quello portoghese, per controllare il territorio creando divisioni e nemici tra i popoli colonizzati.

NEL SUD dell’Angola, tra i Cuamato, Calipalula, un nobile che dovrebbe prendere la guida dei Cuamato è trasformato un un avversario, sconfitto e portato a uccidersi. I materiali fotografici mostrano la sua parabola e insieme la devastazione coloniale mascherata da processo di pacificazione. «Questa sequenza è come uno di quegli animali unici al mondo ad avvalorare la giustezza della teoria darwiniana» scrive Haroun Farocki a proposito di On Construction’s of Griffit’Films (2006). Si tratta dunque soprattutto di prendere la parola, e insieme l’immagine, come ci insegnano nel molto bello Delphine et Carole, insoumuses di Callisto McNulty le magnifiche Carol Rousssopoulos e Delphine Seyrig. .

E LA PRESA di parola guida anche il nuovo film di François Ozon, Grace à Dieu, in concorso ispirato alla vicenda di padre Bernard Preynat, il prete di Lyon accusato di avere abusato sessualmente di decine di bambini tra gli otto e dieci anni nel decennio dal 1980 al 1991. Violenze insistite e ripetute, che l’uomo non avrebbe mai negato, consumate nella diocesi e sotto le tende nei campeggi degli scout, coperte dalle autorità ecclesiastiche e, in qualche modo, anche dai parrocchiani comprese le famiglie delle vittime, tutte molto cattoliche, che mai hanno denunciato alla giustizia quell’uomo carismatico e seducente, amatissimo dai fedeli incapaci di credere agli atti che i loro figli, con molte omissioni, narravano. Era bravissimo col gruppo Saint-Luc Preynat,di cui era responsabile da quanto aveva preso i voti, a ventisei anni, brillante, molto attivo,organizzatore infaticabile, cuoco e campeggiatore esperto, la domenica dopo la messa le mamme dei ragazzini erano fiere di averlo a pranzo: «Era come un guru», si dice in molte delle testimonianze.

CI SONO VOLUTI oltre vent’anni perché una delle vittime cominciasse a chiedere giustizia, convincendo anche gli altri a denunciare quanto avevano subito per «liberare», appunto, col racconto, il trauma che aveva condizionato le loro esistenze future – e La Parole Liberèè si chiama l’associazione che hanno fondato. Il processo a Preynat, oggi settantenne che intanto continuava a occuparsi di ragazzini, a fare messa e prediche, dovrebbe iniziare quest’anno – il suo avvocato ha cercato di bloccare l’uscita del film per non influenzare il giudizio – mentre è già cominciato quello al cardinale Barbarin, arcivescovo di Lyon, e alla sua portavoce, Regina Marie, per avere coperto il prete pedofilo – il titolo, Grace à Dieu, Grazie a Dio, rimanda proprio a una frase pronunciata dal prelato sulla prescrizione dei crimini di Preynat – con la sentenza prevista per il prossimo marzo.

OZON – autore anche della sceneggiatura – rimane nei fatti ma sposta il suo sguardo a quanto accade prima che la rimozione diventi realtà collettiva, che i tabù del silenzio si rompano, che la parola venga presa – «Speak High» – e condivisa col resto del mondo, mettendo in comune le esperienze che ciascuno aveva vissuto in solitudine. Fino a pensare, col sentimento dei ragazzini traumatizzati, almeno all’inizio, che quei baci sulla bocca e con la lingua, lo strofinio del sesso tra le piccole cosce, gli assalti in sagrestia e al campeggio, le mani sudate e il fiato pesante del prete fossero quasi un privilegio, qualcosa che li rendeva speciali. E da lì precipitare in un vuoto d’angoscia che è rimasto negli anni: c’è chi si è ucciso, chi ha iniziato a bucarsi, chi ha continuato a frequentare la chiesa, ha messo su famiglia, ha costruito una vita solida, di successo ma sempre con un pezzo mancante. È su questo che si ferma Ozon tracciando una linea di racconto coerente, sempre dalla parte dei suoi personaggi, che non sono eroi, anzi hanno paura di rivivere quanto hanno sepolto in tutto quel tempo, ma nemmeno vittime: sono semplicemente persone che cercano di riprendere quella parte di vita e relazionarla al loro presente.

TUTTO COMINCIA con le lettere, è così che Alexandre Guérin (Melvin Popaud) scopre che il vecchio prete lavora ancora coi bambini. Decide perciò di scrivere al cardinale Barbarin chiedendogli di intervenire su quei fatti, di allontanare per sempre il prete dalla chiesa. Lui è cattolico, ha cinque figli, la moglie insegna alla scuola cattolica, ha un buon lavoro, una famiglia solidamente borghese. Ma non è una questione di classe: tra quei ragazzini c’era chi era più benestante e chi meno, chi da adulto è chirurgo e chi fa fatica a campare,le contraddizioni che interessano Ozon rispetto a una «tradizione» sul tema che spesso si è concentra sulla debolezza e la ricattabilità sociale dei soggetti, riguardano piuttosto la comunità cattolica cittadina, i suoi riti e l’ipocrisia che la spinge all’omertà quasi a proteggere insieme al prete sé stessa. E al tempo stesso l’istituzione secolare così profondamente capace di auto assolvere le proprie responsabilità.

IN QUESTO CONFRONTO è la scommessa del film, che procede assecondando la fragilità di coloro che lo compiono. Cosa interessa a quegli uomini ormai adulti, che quando si trovano davanti il prete sembrano tornare dietro alla porta chiusa della sagrestia? Non la vendetta contro il singolo ma che la chiesa tutta cambi, che non tolleri più questi abusi, che non ne sia complice. Grace à Dieu (in sala in Italia il prossimo autunno con Academy Two) ne restituisce la voce con attenzione, non strumentalizza per confezionare un fin troppo facile «atto di accusa» contro la chiesa nel quale, come accade in cronaca, ancora una volta le vite di chi ha subito le violenze diventano statistiche, e permette a questa «parola liberata» di divenire, finalmente narrazione.