«Il mio film rappresenta un grande dolore, la ferita di una città. Fino agli anni ’90 sembrava che Napoli potesse avere un futuro, ora non so. Bagnoli Jungle l’ho fatto per protesta o per intuito ma più probabilmente per legittima difesa» dice Antonio Capuano del suo nuovo lavoro, evento di chiusura della Settimana della Critica con il quale torna a Venezia dopo tanti anni (nel ’91 la sua folgorante opera prima Vito e gli altri gli valse il premio della Critica). Dice ancora: «Non voglio girare film fatti bene, per me è oleografia. È cinema vecchio. Non mi piace l’inquadratura perfetta, fa percepire la presenza dell’artificio. Bagnoli Jungle è un film graffiato, imperfetto».

A quattro anni di distanza da L’amore buio, il più «irregolare» dei registi napoletani, il più anarchico, solitario, «non-riconciliato» della vecchia cosiddetta nouvelle vague partenopea torna a raccontare la «sua» Napoli, confermando di essere uno degli autori italiani più coerenti e lucidi. Capace anche di fare un cinema «godardianamente» politico, preferibilmente sporco ed in cui ci sia una corrispondenza forma-contenuto piuttosto che soluzioni studiate e perfettine. In Bagnoli Jungle la sua rinuncia al cinema «politico» diretto, alla denuncia politicamente corretta, al «messaggio» preconfezionato è ancora più provocatoria visto che lo scenario è quello della Napoli più spigolosa e marginale, lontana da tutte le oleografie di destra e di sinistra. Quello difficile e controverso della Bagnoli post-Italsider, dell’archeologia industriale, della dismissione di una delle più importanti fabbriche del polo siderurgico nazionale, di una delle roccaforti della classe operaia meridionale oggi «immensa area svuotata a ridosso del mare, che dopo più di 20 anni e tanti proclami politici è rimasta una steppa inquinata, desolante e vuota» .

Prodotto dalla Eskimo di Dario Formisano (con Gennaro Fasolino e lo stesso regista), Bagnoli Jungle nonostante il bassissimo budget può contare su un attore di scuola eduardiana come Antonio Casagrande e su attrici consumate come Angela Pagano e Gea Martire. Capuano ha scelto ancora una volta la strada stilistico-espressiva a lui più congeniale delle storie forti, dei personaggi scolpiti con feroce incisività. Scandito in tre capitoli, il film è la storia di un emarginato di 50 anni che si arrangia tra furti nelle auto e giri di trattorie, di un un ex operaio pensionato dell’Italsider patito di calcio e divulgatore delle gesta di Maradona e di un giovane garzone di salumeria. Tre generazioni perdute nella giungla sorta intorno all’ex gloriosa fabbrica. E sulle loro vicende incombe infatti l’imponente scheletro di quella che fu una delle più importanti acciaierie d’Europa. Tre sguardi che scandiscono quello che può sembrare un tradizionale film a episodi, ma sono i tre personaggi insieme a comporre il tragico finale. In chiusura c’è una camminata conclusiva dentro l’Italsider con il vecchio operaio sulla sedia a rotelle. Anghelopulos forse avrebbe raccontato la vicenda con un unico piano-sequenza, ma Capuano non poteva farlo. A lui più che attraversare la Storia interessa mettere in cortocircuito i brandelli sparsi, il passato e il presente/futuro, il fuori campo e la schiacciante visibilità della Bagnoli di oggi.