Due giorni prima dell’annuale cerimonia degli Academy Awards, che si terrà domenica sera al Kodak Theatre di Hollywood, alla Lone Star Arena di Stephenville, 130 chilometri a sud di Dallas, avranno inizio le eliminatorie per quello che il sito della World Series of Team Roping (il campionato della disciplina di rodeo in cui due uomini a cavallo devono immobilizzare un vitello il più in fretta possibile) chiama «il principale evento di cowboy» e «la terza manifestazione ippica del mondo».

La capitale mondiale del cinema e quella dei cowboy (così è soprannominata Stephenville, che ha circa 19.000 abitanti); la California illuminata e progressista e il Texas repubblicano più arcaico – due mondi distantissimi uno dall’altro che sono diventati i poli simbolici del dibattito culturale del momento, quello su American Sniper. E due mondi resi più vicini, in questa settimana pre-Oscar, dal processo al veterano accusato di aver ucciso Chris Kyle, il famoso cecchino dalla cui omonima autobiografia è stato tratto il film di Clint Eastwood.
Molto più in carne nelle foto dall’aula del tribunale di quanto appariva in quelle scattate ai tempi dell’arresto, Eddie Ray Routh ha un background non molto diverso da quello di Chris Kyle o dell’altro veterano che Routh ha ammazzato il 2 febbraio del 2013, tre giorni dopo che sua madre aveva supplicato invano uno psichiatra della Veteran Administration di Dallas di ricoverare il figlio perché «non costituisca un pericolo per sé e per gli altri». Routh non ha negato il doppio omicidio ma davanti al giudice si è professato innocente, per insanità mentale. Se i 10 giurati (8 donne e 2 uomini) gli daranno ragione trascorrerà la sua vita in un manicomio criminale, se il verdetto sarà «colpevole» è l’ergastolo senza possibilità di rilascio. In uno stato notoriamente forcaiolo, il pubblico ministero ha scelto di non chiedere la pena di morte – nemmeno a lui è sfuggita la dimensione tragica, paradossale, del caso.

Ventisette anni, cresciuto in una famiglia piccolo borghese del Texas (suo padre lavora con macchinari da allevamento, la mamma era impiegata in una scuola elementare), Routh era uno studente mediocre che ha deciso di arruolarsi nei Marines nel 2006. Anche lui, come Kyle, amava molto le armi («gli davi una pistola e sapeva immediatamente come farla funzionare», racconta il padre che lo portava a caccia da piccolo, in un lungo reportage del New Yorker).

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Diversamente da Kyle, nel suo unico turno in Iraq, Routh non si distinse in modo particolare. Anzi, quando chiamava a casa, certe volte sembrava molto turbato, hanno raccontato i genitori. Quel turbamento divenne ancora più evidente al suo ritorno dal fronte, nel 2009, e cominciò a tradursi in comportamenti allarmanti dopo una missione umanitaria ad Haiti dove marines come lui erano distaccati con i soccorsi post terremoto. Lasciato il servizio militare nel 2011, Routh non riusciva a trovare un lavoro stabile e le crisi di panico si moltiplicavano, come quelle di paura e di aggressività.

Ogni tanto raccontava di avere delle visioni. La prima visita al centro medico della Veteran Administration di Dallas è dell’estate del 2011 quando suo padre lo accompagnò perché Eddie diceva di avere il verme solitario che però i medici non gli trovarono. La prima diagnosi di PTSD, il disordine da stress post traumatico, è arrivata dopo che Eddie aveva minacciato di suicidarsi con una Magnum. Ma, dopo tre mesi di ricovero, il centro medico lo dimetteva, anche se a casa i genitori non notarono grandi miglioramenti. Da lì, le crisi non fecero che moltiplicarsi fino a un nuovo ricovero, in seguito a un arresto, istigato da una scena a casa della sua ragazza, nel gennaio 2013.
Ma quella volta fu mandato a casa nel giro una settimana, con una provvista di psicofarmaci, nonostante un referto medico che lo definiva potenzialmente pericoloso. «Non riusciva a condurre una conversazione che avesse senso. Piangeva molto – Mamma mi tieni la mano? Ho paura. Non mi sento bene. Non sto bene», ha raccontato sua madre. È stata lei, nel parcheggio della scuola dove lavorava, e dove Chris Kyle si era recato a prendere i suoi bambini, ad avvicinare l’ex Navy Seal e a chiedergli di aiutare suo figlio. Kyle era un eroe nazionale, con un’autobiografia best seller e un centro di sostegno per veterani. Anche lui, come Eddie, aveva sofferto di PTSD, e prendeva ancora dosi regolari di antidepressivi.

Secondo gli atti del processo in corso a Stephenville, non ci volle molto, per Kyle, quel pomeriggio del 2 febbraio, per capire con chi aveva a che fare. «Questo tipo è completamente pazzo» diceva l’sms che Kyle ha mandato a Chad Littlefield, l’altro veterano sul Ford pick up diretto al poligono di tiro dove stavano portando Eddie Routh per distrarlo – scelta in apparenza illogica, che si sarebbe rivelata fatale, ma per tre reduci il simbolo di una «lingua» condivisa.

Per la statura nazionale di Chris Kyle e perché la sua storia è diventata un film con sei nomination agli Oscar, il processo a Eddie Ray Routh è molto più seguito dai media di quanto lo sarebbe altrimenti. Sicuramente, senza l’assurdo finale di sangue, Routh sarebbe stato «solo» un ennesimo veterano invisibile e disadattato come centinaia di migliaia di altri. Le statistiche sono devastanti: secondo un recente servizio tv di Vice (su HBO), tra il 2009 e il 2011 si è registrata un’impennata dei suicidi di reduci del 44%, con punte di 22 al giorno. Tra il 2008 e il 2013 le ricette per psicofarmaci a militari ancora in servizio sono aumentate del 100%. Travolta da un ennesimo scandalo (da cui emerse che l’attesa dei veterani per l’assistenza medica poteva richiedere fino a 900 giorni), dopo le dimissioni del suo ministro, il maggio scorso, la Veteran Administration è oggetto di un’inchiesta federale e di riforme interne molto drastiche. Secondo un ispettore generale, la sede di Dallas, dove i Routh hanno portato Eddie più volte, sarebbe stata una delle peggiori.

Per la stragrande maggioranza degli spettatori che hanno comprato il biglietto per andare a vedere il film, American Sniper è indissolubile dalla realtà più complessa, dolorosa e molto poco rappresentata (non dimentichiamo che Bush impedì per anni che le bare dei caduti in Iraq fossero riprese al loro arrivo negli States) di chi in Usa è entrato in contatto anche indirettamente con la guerra – non il film trionfalistico e «di propaganda» che ci hanno visto le destra e la sinistra più dogmatiche, sempre pronte a impennarsi in nome dell’oltraggio morale. Perché la storia del cecchino infallibile e decorato Chris Kyle, che la guerra ha logorato lentamente, e quella di Eddie Ray Routh, a cui la guerra ha fatto malissimo subito, è la stessa; come quella dei genitori che hanno chiesto aiuto invano per un figlio malato e quella della giovane vedova che, al banco dei testimoni, oggi si batte per l’obbiettivo senza senso di vedere l’assassino di suo marito dietro alle sbarre di una prigione piuttosto che quelle di un manicomio criminale.

Lo ha capito Eastwood, che nel suo film ha voluto la bella scena – sulla pista dell’aeroporto- in cui Kyle, felice di essere tornato al fronte incontra il fratello che sta tornando a casa e che, volto pieno di stanchezza e spavento, gli dice: «Fuck this place». Lo hanno capito (insieme al figlio delle grande Depressione Clint) due campioni storici della sinistra come Jane Fonda (protagonista di uno dei film più famosi sul ritorno dei veterani, Tornando a casa) e Michael Moore che hanno saputo vedere la realtà sociale e di classe a cui è ancorata l’anima politica del film. A confronto con quella realtà, il resto è posa.