A poche settimane dalla morte di Ermanno Rea è arrivato nelle librerie il suo ultimo libro, Nostalgia (Feltrinelli, pp. 275, € 18,00), un romanzo che è anche un estremo appello ai valori morali e civili. In copertina una fotografia di Mimmo Jodice: in primo piano tre bambini che emergono da un vicolo che dietro di loro si fa buio. Volti, vesti e sguardi ne raccontano la povertà ereditata in sorte. Ed è già la Napoli labirintica, in cui la primordialità selvaggia della forza si accompagna a una dolcezza dolente.
Nostalgia, ovvero dolore del ritorno, come già Odisseo, che viaggia per terra e per mare, ad espiazione di una colpa lontana. E come per Odisseo, la colpa, il viaggio e il ritorno sono ascrivibili più al fato che a una scelta individuale. Felice, tornato nella sua Napoli, al rione Sanità, viene freddato da qualcuno che per quarantacinque anni lo ha atteso e ne ha pianificato con cura l’esecuzione. La narrazione procede a ritroso: l’agguato in un vicolo, poi la rievocazione di una storia lontana, una storia che vede due adolescenti, Felice e Oreste (opportunamente soprannominato Malommo), amici fraterni, complici di scippi e furti, un furto che finisce col morto, e la fuga di Felice, dapprima in Libano, nella Beirut agiata, poi in Africa: Egitto, Nigeria, Botswana; quindi il ritorno e il conto con la malavita ancora da pagare, come un peccato originale atavico mai cancellabile. Solo che l’eroe in questo caso non attua la vendetta, ma la subisce.
La scrittura di Rea è densa come sempre e va a costruire per il lettore una rete di significati e di connessioni che vengono in luce via via, rivelando quanto di irrisolto e misterioso sia nel cuore del racconto. Ci sono i fatti, che stanno lì in evidenza, con la vendetta, piatto freddo di quarantacinque anni, con un’amicizia innestata sulla connivenza e alimentata nel contesto di una disposizione gerarchica che Felice ha sempre riconosciuto e subìto nei confronti di Oreste. Il teatro è un luogo d’eccezione, il rione Sanità, di cui vengono rievocate storie e sentimenti; un quartiere che sembra rimasto immutato a chi vi si immerge di nuovo dopo mezzo secolo. E ha davvero i tratti omerici questo mondo sospeso nel tempo, nel quale trovano la propria missione figure fulgide: Rashid Kemali, medico libico che ha fatto di Napoli la propria città, figura storica del Pci locale e uomo di inesauribile carità e umanità; don Luigi Rega, parroco di Santa Maria della Sanità, nel quale si riconoscono i tratti di padre Antonio Loffredo, grande amico di Rea e di Kemali; e il narratore, Nicola, un medico, che raccoglie le confidenze e i ricordi di Felice e degli altri personaggi, un aedo dotato di una personalità sua propria (comunista ateo e animato da uno spirito umanitario votato alla comprensione e alla compassione).
La Sanità, «la figlia prediletta del Caos», è il grembo materno dal quale si è fatalmente attratti, impossibile da abbandonare o dimenticare, come leggiamo nelle pagine conclusive del romanzo. Come Odisseo, Felice desidera il ritorno perché deve riprendere se stesso e riscattarlo da Malommo, che lo ha manovrato come un pupazzo. Ma una volta tornato, il passato «gli si rovescia addosso rabbioso come una muta di cani randagi» e l’uomo corre incontro alla morte cui era riuscito a sottrarsi per quarantacinque anni. Felice, a dispetto della lettera che scrive alla sua donna, sa di dover morire: il peso della sua colpa – ammesso che di colpa si possa parlare – esige che affronti da uomo forte le sue paure.
Nessuna prospettiva salvifica e nessuna ipotesi di speranza siglano questo romanzo che ricostruisce un cinquantennio di storia napoletana e italiana. La narrazione di Rea non lascia adito a dubbi: la Sanità è la figlia di un caos che ha genitori nelle speculazioni dell’alta finanza, nella Chiesa pavida e accomodante (come avevamo letto anche ne La fabbrica dell’obbedienza), nella politica che scende volentieri a compromessi. Contro tutto ciò si ergono Kemal, padre Rega (in cui si cela il cognome dell’autore) e lo stesso narratore, convinti che lo sviluppo di un’autentica fraternità possa costituire le basi per la ricostruzione del tessuto civile della città. Essi si muovono nel rione con lo spirito pacato e indomabile dei guerrieri che sanno di combattere per una causa giusta: in questo caso mantenere limpida la memoria di un amico innocente, stritolato dai meccanismi della prepotenza criminale.