Una volta ancora, e forse non sarà l’ultima, torniamo all’ACID. Dopo Je suis un peuple e Gaz de France, è la volta di The Grief of Others (il dolore degli altri). A presentarlo c’era il regista, il nordamericano Patrick Wang. Quando è salito sul palco, con il microfono, qualcuno avra pensato: chi è questo geek ? Patrick ha tratti asiatici, fa oltre un metro e novanta, ha modi garbati e accento wasp. Per una volta, l’abito fa il monaco: prima di girare il suo primo lungometraggio, Patrick ha frequentato i banchi del prestigioso Massachusetts Institute of Technology.

Entriamo nel suo film al suo ritmo e con i colori delle prime immagini. Provate a figuravi una soggettiva di una bicicletta. L’inquadratura è diretta sulla strada asfaltata, così che questa, scorrendo dolcemente, riempie lo schermo come un grande nastro grigio. La tonalità e il ritmo, che ad un primo sguardo sembrano uniformi, sono il canone, severo ma giusto, che Patrick Wang impone a se stesso per mettere in scena l’argomento del film. Questo, tratto dall’omonimo romanzo di Laer Hager Cohen, si può riassumere in una riga: una famiglia è abitata da un lutto che non è stata capace di affrontare, una visita improvvisa riapre la ferita.

Più difficile è rendere l’idea di come Patrick riesca a far sentire la profondità dei sentimenti e le asperità delle passioni che i suoi personaggi vivono. Attraverso molti strati sovrapposti. Si tratta da un lato di livelli narrativi. Il racconto comincia al presente, quando la piccola Biscuit cade nel fiume Hudson ed è raccolta da Gordie che passeggia con il cane. Gordie riaccompagna a casa Biscuit e facciamo la conoscenza con suo padre John, con suo fratello Young Paul e con la sorellastra Jessica. Questa linea temporale costituisce una base sulla quale Wang si muove aggiungendo dei livelli posteriori e anteriori che, strato dopo strato, tratteggiano la storia, intrecciando due lutti, uno passato e uno a venire. Oltre allo spessore temporale, dato dai flash in avanti e indietro, il film produce un rilievo lavorando la profondità cromatica. La pellicola 16 millimetri offre in questo caso il tono base. Su questo, Wang aggiunge abilmente delle sovraimpressioni, a colore o in bianco e nero, in 16 e in 8 millimetri, creando, attraverso la modulazione cromatica e la densità dell’immagine, una palette emotiva.

Gordie lega rapidamente d’amicizia con Jessica, la quale porta in grembo un bambino di cui si ignora il padre. Questa storia, parallela a quella della famiglia di Biscuit, permette a Wang di aggiungere un terzo lutto. Gordie ha perduto di recente il padre, il quale, pur essendo un semplice postino (viene in mente il doganiere Rousseau) aveva una passione artistica: costruiva delle scene teatrali in piccole scatole. Jessica ne intuisce il valore e le mostra ad una gallerista, la quale decide di esporle. In quest’esempio di art naïf vediamo un auto-ritratto del cineasta, e del suo tentativo, molto riuscito, di fabbricare un grande teatro del dolore dentro una scatoletta ordinaria, oltre la maniera, un’etica della messa in scena.