L’uomo arriva con le buste della spesa. La donna a malapena si regge in piedi, è malata terminale. Sono marito e moglie. Si dicono parole al vetriolo, imbevute di macabro umorismo. Lo spazio è puro habitat mentale. Due pareti a spigolo, un angolo cieco. Buono per Gregor Samsa. Una poltrona, un tavolo, due sedie e un bonsai, che non è lì per caso: è il testimone, la pianta che si nutre da dentro, cresce ma non lo dà a vedere. Poi c’è la vita degli altri, il fratello della donna, il padrone di casa, partiture nevrotiche, inghiottite dall’imbarazzo dello stare al mondo. Il quintetto di Michele Santeramo, orchestrato da Roberto Bacci, si chiama Il nullafacente.

Condizione esistenziale, non materiale. Il non far nulla, una volta «dolce», per Santeramo, non ha niente da spartire con la precarietà dell’oggi. È trauma filosofico. Ma oltre il bricolage del non sense, resiste l’amore. La donna che dà la nascita e se la può riprendere. Ed è bravissima Silvia Pasello, a deporre alla fine la «vita» sul tavolo della resurrezione, cullata al contrabbasso di Ares Tavolazzi da Io che amo solo te. Gli altri sono Francesco Puleo, Michele Cipriani, Tazio Torrini. Direbbe Jep Gambardella: «La più consistente scoperta che ho fatto compiuti 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare».