Fiaccati dal caldo lagunare e dalla lotta contro le zanzare che già prosperano a Venezia, dopo aver visto Marisa Laurito imprecare contro i suoi tacchi a spillo color fucsia che si incastravano nella ghiaia dei Giardini dandole non poco filo da torcere, aver sventato il bagno offerto gratis da Prada (basta non spintonare per andare ai cocktail), fatto incetta di borse di tela dei padiglioni (scarseggiano i colori, unica eccezione il giallo canarino dell’inglese Sarah Lucas), si può tornare all’Arsenale, per dedicare una pausa ragionevole al padiglione nazionale.

Ci arriviamo storditi dal vociare caotico delle lingue indigene perdute – l’installazione sonora del padiglione latinoamericano – e, in un primo momento, quella specie di edificio conventuale eretto dove il brusìo non entra – né la luce – assume i contorni di una sosta ristoratrice. Una serie di strette celle sbarrano l’attraversamento veloce, tutto è avvolto nell’oscurità e disegna un rigoroso templio in bianco e nero. Spara pixel psichedelici solo l’omaggio al Belpaese di Peter Greenaway, ma il suo mosaico di bellezze all’italiana somiglia troppo a una sigla televisiva o ai videoclip di Mtv. Si può proseguire oltre.

Pochi passi e si viene investiti da un tocco cromatico accecante: sono le centinaia di pannocchie scovate (con tanta difficoltà, nelle Langhe, grazie a un contadino che le spiccava ancora a mano) da Marzia Migliora. Una «natura morta» la sua, rivissuta con echi affettivi, un’installazione potente che riconduce nella (universale?) «stanza del padre». Ma il contesto del padiglione in cui è inserita non funziona, Migliora è presenza lunare.

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Vincenzo Trione deve aver avuto le idee chiare fin da subito. Nella messa in scena del suo Codice Italia non pare aver avuto tentennamenti critici. E questo gli va riconosciuto: un pensiero forte guida l’allestimento. Solo che il curatore non si è discostato da quel suo perimetrare ossessivamente il territorio leggendolo con la sua consueta cornice dei «post-classici». L’aveva già realizzata una mostra imperniata su questo concetto, con tanto di libro. Per Trione, «classicità» è la parola grimaldello da sfogliare come fosse un album di «proposte iconografiche» per il futuro. Se poi sono ibernate dal gelo metafisico, meglio ancora. Sculture ieratiche per una memoria altrettanto ieratica. Non è un caso che il materiale privilegiato siano pietre e marmi. Vanessa Beecroft addirittura «mura» una specie di deposito di reperti archeologici reinventati. Chi vuole sbirciare in quella bruttezza, lo faccia pure.

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A questo punto, i problemi che nascono sono sostanzialmente due. Il primo: davvero esiste un dna esclusivamente italiano? E qualora la risposta fosse affermativa, è solo da rintracciare nel frammento archeologico, nella malinconia sprigionata da quelle statue spezzettate, mutilate e mute del mondo greco-romano? Il secondo: le celle architettoniche create per il padiglione evitano ogni dialogo energizzante fra le opere. Alla fine, nonostante la «solitudine» dell’artista, perseguita con cabarbietà da Trione, il padiglione risulta essere troppo affollato di presenze, ognuna bloccata nella totale incomunicabilità. Naviga isolato Jannis Kounellis verso i suoi porti introvabili (oltretutto, il muro intonacato di bianco squillante non rende giustizia alla poetica installazione dell’artista), salpa incerto, spaccando la terraferma e volgendo lo sguardo all’indietro Parmeggiani con la sua àncora, scruta desolatamente dentro di sé la sentinella di Paladino. Né hanno sorte migliore i «pezzi» di Francesco Barocco o di Andrea Aquilanti.

Se si escludono gli outsider come Kentridge (presenta Trumphs and Laments, quella bellissima processione sulla biografia di Roma che avrebbe dovuto «camminare» sul muraglione del Tevere e che la soprintendenza ha bocciato con spirito punitivo) e Jean-Marie Straub con i suoi frammenti filmici che ricuciono territori a rischio di evaporazione, quale temperatura emana da Codice Italia? È la storia di un viaggio interrotto, di un passaggio di testimone tra storia e futuro che non ha trovato appigli se non nella museificazione rappresa, avvenuta prima del tempo e a insaputa degli artisti stessi. Anche di due sperimentatori multimediali come Tambellini e Gioli. L’effetto è quello di Pompei.