In un momento in cui il dibattito intorno a social, celebrità mediatiche, leader politici dalla voce grossa, legame tra populismo e comunicazioni di massa diventa sempre più tedioso, sorprende scoprire come alcuni di questi elementi fossero in gioco fin dagli anni Venti, come racconta, in modo assai convincente, Giorgio Bertellini, professore di storia del cinema in Michigan, in The Divo and the Duce. Promoting film stardom and political leadership in 1920s America (Berkeley University of California Press, 2019).
Per spiegare la contemporanea popolarità di queste due figure maschili negli Usa in quegli anni c’era bisogno non solo di un’accurata indagine storica, su documenti di prima mano, ma anche di una intuizione, in questo caso il ruolo di press agents, fantasiosi biografi e «consulenti di immagine» ante litteram. Provocatoriamente il libro si apre con una foto che illustra l’inatteso rapporto di Mussolini con le star americane che si recavano a fargli visita, alle quali regalava lui una foto autografata, e che esportavano il saluto fascista nei party in piscina, come testimonia l’immagine di Mary Pickford, Douglas Fairbanks e altre star a Los Angeles, col braccio alzato, nel 1927. In questa immagine convergono, secondo l’autore, due fenomeni: «la crescente importanza politica della cultura della celebrità e la crescente popolarità di leader politici autoritari».

Ma il contesto storico in cui avvengono queste trasformazioni non era affatto favorevole al «successo» americano dei due italiani. Infatti il primo dopoguerra, negli Usa, fu caratterizzato non solo dall’anticomunismo, suscitato dalla rivoluzione russa, ma anche dall’anti-immigrazionismo, legato alla Grande Ondata migratoria dal Sud Europa. Allo stesso tempo permaneva una grande passione per l’arte e la cultura italiana, con la schizofrenia che caratterizza da sempre l’atteggiamento americano: di amore per l’Italia e disprezzo per gli Italiani.
Nel dopoguerra inoltre si scatena la forza mediatica di Hollywood e accadono grandi cambiamenti socio-culturali che accorciano gonne e capelli per le donne, e concedono loro il voto. Donne che determinavano il botteghino, come scriveva Herbert Howe, giornalista cinematografico, filomussoliniano e ghostwriter per Valentino: al cinema «non conta molto cosa piace agli uomini, sono le donne che li portano al botteghino».

Amati dalle donne, Rodolfo Valentino e Benito Mussolini rappresentano in America due icone maschili di profonda penetrazione, proprio negli stessi anni in cui scoppiava il caso Sacco e Vanzetti, momento simbolico di un fanatico pregiudizio anti-italiano.
Considerando il fenomeno a partire dalla constatazione che il Divo e il Duce erano due celebrità mediatiche, Bertellini spiega l’attrazione americana per la virilità passionale di Valentino-sceicco e per l’uomo forte Mussolini, ragionando sul contesto ideologico e culturale.
In questi anni le scienze sociali si sviluppano a ritmo accelerato nell’ambito della pubblicità, della consulenza e del giornalismo popolare, penetrando sia nel mondo per nulla immateriale del cinema, che in quello della finanza e della politica, inclusa la diplomazia, ovvero nelle forze che stanno dietro al successo di questi due personaggi. Indagando il mondo dei fan magazines, capaci di inventare biografie fantasiose, viaggi inesistenti, gossip sentimentali e scandali, pur di vendere un nuovo film o promuovere una nuova star, Bertellini rivela persino che la famosa vicenda del «piumino di cipria» ovvero la scandalosa accusa che il Chicago Tribune, nel 1926, mosse a Valentino di femminilizzare il modello maschile americano con i suoi braccialetti da schiava e gli abiti sartoriali, fu in realtà una trovata pubblicitaria della compagnia che stava distribuendo Il figlio dello sceicco.

La parte dedicata a Valentino analizza i ruoli interpretati dal giovane attore, ancora a New York, agli inizi della carriera, che erano quelli di un «cattivo tutto speciale» e nei quali era un italiano, mentre in seguito, dopo che la sceneggiatrice e produttrice June Mathis lo scoprì e lo lanciò nei Quattro cavalieri dell’apocalisse (1921), divenne il maschio transnazionale che seduce, talvolta con violenza (ne Il figlio dello sceicco), le donne. Una virilità straniera, esotica, che rappresentava, secondo Bertellini, l’aspirazione latente di una società americana che affrontava la civiltà di massa con inammissibili desideri di autorità. Su questo piano si spiega anche la simpatia che circondò Mussolini fino alla guerra di Etiopia, negli Usa.
Ma non fu solo il carisma che giustificò questi fenomeni divistici: dietro a queste figure c’erano press agents, consulenti, esperti di marketing, dotati talvolta di un cinismo incredibile. La coreografia dell’imponente funerale di Valentino e la presenza di camicie nere che depositarono sulla bara del divo (autodefinitosi invece antifascista) una corona di fiori a nome del Duce (e la fine dell’embargo italiano dei suoi film, determinato dalla sua decisione di prendere la cittadinanza americana) furono studiati a tavolino tra le due sponde dell’oceano, mentre il giovane attore era ancora in agonia, allo scopo di sfruttare con diverse mire politiche e mediatiche, le emozioni, ben orchestrate del pubblico.

In effetti l’industria cinematografica americana, fin dalla prima guerra mondiale, aveva capito di poter giocare un ruolo nella politica e nella propaganda e vendere consumismo e democrazia al mondo, come aveva auspicato Woodrow Wilson nel 1916, ovvero un anno prima dell’entrata in guerra. Allo stesso tempo la politica stava velocemente imparando a utilizzare i media moderni, con, in prima fila, il giornalista e abile sloganista Mussolini, che le biografie scritte da Margherita Sarfatti, promossero alla grande in America.

Fin dalla Marcia su Roma infatti la diplomazia in Italia (l’ambasciatore americano Child) e negli Stati Uniti (l’ambasciatore Caetani), gli interessi finanziari della J.P. Morgan, diversi giornalisti e l’associazione italoamericana IAS avevano sostenuto il Duce, rappresentandolo come un leader virile, capace di domare un’Italia disordinata, malata e comunque sempre «donna.» Mussolini fu persino il protagonista del primo cinegiornale sonoro della storia del cinema, in The Man of the Hour (1927), in cui ebbe la possibilità di rivolgersi direttamente al pubblico americano in inglese e italoamericano in italiano e interpretò se stesso nel film di Fitzmaurice Eternal City, girato a Roma, per il mercato americano, ma mai distribuito in Italia.
Nelle conclusioni Bertellini commenta il passato, ma l’avvertimento non ci sfugge: «la popolarità di personaggi iconici indebolisce gli ideali della democrazia diretta a favore di rappresentazioni carismatiche».