Ha la sensazione di aver appena sfiorato il mistero, Monika Bulaj (Varsavia 1966, vive e lavora a Trieste) quando afferma «sono lì vicino, ma forse ancora lontano». A guidarla è l’istinto, lo spirito d’avventura, una certa insofferenza ai cliché. Quanto alla parola progetto non le piace per nulla, perché quel termine implica la conferma a dei presupposti. Il suo racconto, invece, vuole essere fluido, aperto all’esperienza dell’incontro.

NEL SUO ULTIMO LIBRO Where Gods Whisper (Dove gli dei si parlano, Contrasto pp. 249, euro 45), «un lavoro al confine tra antropologia visuale e storia delle religioni, reportage e cammino con la gente» – ha ripercorso gli incontri quotidiani degli ultimi quindici anni durante i lunghi viaggi in Siria, Afghanistan, Sinai, deserto del Sahara, Tibet, Kosovo, Israele, Polonia.
Luoghi apparentemente distanti dell’islam, del mondo cristiano e di quello ebraico in cui si aggirano samaritani, sufi, chassidim, monaci, profeti, dervisci, santeri, pellegrini e devoti accomunati, talvolta, dalla pratica di rituali, come quello della flagellazione a sangue durante le processioni della Settimana Santa nell’Italia del Sud, non troppo distante dall’Ashura praticata dai fedeli Sciiti in Iraq.

IMMAGINI COME QUELLA che mostra le donne pugliesi con il volto coperto tutte vestite di nero, trasportano, in particolare, in uno spazio atemporale analogo a quello etiope con le centinaia di figure avvolte nella mussola bianca degli scialli, di ritorno dalle notti di veglia, preghiera, canto e danza, oppure sfinite dopo un’epifania iniziatica a Haiti. Il tempo conferma la coerenza di queste fotografie, testimoni dell’affermazione che «il buon santo è buono per tutti», come precisa la stessa Bulaj.

5© Monika Bulaj-1
[object Object], © Monika Bulaj

MANGIARE IL PANE di genti diverse e ascoltare le loro preghiere, spesso all’ombra di guerre antiche e recenti, è stato decisivo per l’autrice che, proprio come fanno i fotografi, «raccoglie le innumerevoli schegge di un grande specchio rotto, sognando quell’immagine intera del mondo che forse c’era e si è perduta». «Se trovo una storia bellissima dedico il mio tempo a seguire le persone, per cercare di capire – spiega -. Però la luce non si ripete mai, come non si ripete la visione, per cui la cosa più importante per me è sempre la fotografia. Ma non sono ossessionata dal fotografare, posso sempre anche scrivere la mia storia. Non sopporto violare divieti o la volontà delle persone, né fotografare di nascosto, facendo quel movimento violento con le mani, come se rubassi in chiesa o facessi qualcosa di illegale o sconveniente. Mi piace fotografare poggiando la macchina con quella lentezza che comunica la certezza di fare un’azione giusta. Non metto nessuno in posa, scatto quando mi sento di scattare, è qualcosa di intuitivo, potrei dire anche animalesco».

La scrittura è altrettanto importante per Monika Bulaj che nel libro, così pure negli spettacoli di performing reportage (al Teatro Bibiena per Festivaletteratura di Mantova o in occasione della XV edizione di Corigliano Calabro Fotografia), mette in azione una narrazione multipla.
«Talvolta mi fermo in un luogo e lo guardo attraverso la molteplicità delle storie che accadono lì. Storie stranissime, belle, inattese come in Egitto dove nel mondo completamente diviso cristiano-musulmano si riescono a creare focolai di speranza, luoghi d’incontro veri o simbolici», dice.
Non è tanto la gestualità del corpo, l’espressione che rende simili gli uomini anche nella pratica di una diversa religione, ciò che sottolinea la fotografa, piuttosto è la straordinarietà di situazioni che vive, ad esempio, in Egitto «dove i pastori beduini, ma anche le persone colte musulmane, si recano nei santuari cristiano-copti per pregare o chiedere la benedizione in un mondo completamente diviso, dove la chiesa cristiana vive sotto continuo assedio».

ALTROVE AD ATTRARLA sono quei luoghi di straordinaria spiritualità come i santuari delle comunità sufi – dal Mali al Pakistan – che predicano la pace, l’amore, la tolleranza e che, proprio per questo motivo, sono presi di mira dall’odio e dalla rabbia distruttiva dei fondamentalisti.
In Where Gods Whisper, oltre alle grandi tradizioni religiose monoteiste, è protagonista la fede e religiosità politeista voodoo, legata indissolubilmente a una terra d’esilio come Haiti. Proprio nella molteplicità delle forme del divino, antidoto contro un dolore antico mai totalmente cicatrizzato di violenza, deportazione e schiavismo, se ne percepirebbe l’unità.