La Casa Buonarroti di Firenze ha da poco cambiato direttore. Per questo – dopo la stagione brillante coordinata da Pina Ragionieri, ora presidente, cui si devono capitoli di rilievo nella recente storia culturale cittadina a partire da Il giardino di San Marco del 1992 per arrivare al Michelangelo nell’Ottocento del ’94 o all’appuntamento con Cecco Bravo, pittore barocco, 1999 – spetta ad Alessandro Cecchi, già alla guida della Galleria Palatina a Pitti, il compito di tenere vivo il calendario di un’istituzione tanto illustre (il palazzo su via Ghibellina ospita le raccolte della famiglia Buonarroti, in quella che fu la residenza signorile dell’artista) quanto coesistente, in termini di programmazione, con altre sedi celebri, dagli Uffizi all’Accademia passando per il Bargello.
Perciò, al banco di prova della mostra promossa nel quadro rinnovato della Fondazione che regge il museo, appare ben scelto il tema dell’appuntamento in cartellone fino al 2 ottobre: un’indagine sui rapporti di Michelangelo con la Seconda Repubblica fiorentina, quella sorta in opposizione al dominio dei Medici negli anni estremi delle Guerre d’Italia, quando il papa Clemente VII, un discendente della famiglia, si trovò a tal punto stretto nella tenaglia degli interessi sullo Stivale – francesi, spagnoli, senza contare le ingerenze dell’Inghilterra di Enrico VIII – da subire per la prima volta nell’era cristiana di Roma un sacco da parte delle truppe lanzichenecche dell’Imperatore Carlo V, barbaramente avviatosi il 6 maggio 1527.
Da quel momento la popolazione di Firenze poté nutrire il sogno politico di tornare a una pristina libertà, un’illusione durata appena tre anni con in mente il modello della non lontana esperienza «democratica» ispirata al suo nascere dalle prediche visionarie di Savonarola e sostenuta fino a circa il 1512 dal governo di Pier Soderini; e nel corso di una simile, breve avventura, accesa fra le difficoltà di un drammatico frangente, la figura del Buonarroti si ritagliò un ruolo peculiare, creatosi – in mezzo a paure e incertezze – ingegnere delle difese militari.
L’argomento del percorso si dimostra stringente non solo perché Cecchi, che cura la mostra, sta per pubblicare il proprio informatissimo resoconto di quel naufragio, finito con un assedio da parte delle truppe asburgiche che dai tempi del drammatico Marietta de’ Ricci di Agostino Ademollo (romanzo storico del 1840) attende un résumé documentato e affidabile in grado di delinearne moventi, sviluppi e passioni. È anche il patrimonio conservato a Casa Buonarroti a legittimare l’operazione oggi proposta nelle sale. L’imponente corpus di disegni che è il tesoro di quel museo, composto da autografi di mano dello scultore (accanto alla ricca corrispondenza diretta e indiretta), include infatti i venti fogli in cui compaiono studi per baluardi, bastioni e muraglie che sono stati ricondotti all’attività di governatore generale delle fortificazioni svolta da Michelangelo durante un’emergenza siffatta a partire dal 6 aprile 1529 (purtroppo – certo per ragioni conservative – ne è esposta solo un’accorta selezione, insieme ad alcuni documenti originali relativi alla medesima vicenda).
Risulta dunque opportuno per il senso stesso dell’iniziativa – e pure nella differenza delle posizioni espresse dalla letteratura critica su quei lavori impressionanti, prossimi a carapaci compatti o a scivolose lame di coltello, propensi a soluzioni aguzze contro i colpi impattanti dell’artiglieria – che il catalogo verifichi nel saggio di Mauro Mussolin le posizioni favorevoli a scaglionare su una cronologia più ampia i pensieri michelangioleschi per belliche apparecchiature, mettendo in luce come l’artista avesse teso prima del 1527 a presentarsi nella veste di architetto militare, con l’offrirsi allo stesso pontefice – arcinemico della libertà fiorentina – quale provetto consigliere di strategie difensive.
Una simile specifica sfata il sentimento apocalittico di frattura cronologica che da sempre si lega all’esperienza della Seconda Repubblica; aiuta a capire in che modo quel cantiere – anche in continuità con quanto già compiuto – si prestasse a ritracciare una geografia urbana e un intero immaginario cittadino, consegnando un piano progettuale al ricostituito potere mediceo sotto la conduzione di Alessandro e poi di Cosimo. Nelle settimane della morsa imperiale si crea insomma la nuova Firenze, quella che non a caso vedrà sorgere l’imponente Fortezza da Basso sull’antica Porta Faenza; ugualmente il linguaggio delle arti, della cultura indigene (ancora splendenti di un’allure da koiné universale) si declina in nuove forme nel corso di quei mesi, come icasticamente testimoniato in mostra – pur nell’inevitabile assenza di qualche prestito eloquente (ad esempio la trasferta, potenzialmente costosissima, del Ritratto di giovane del Pontormo dal Getty Museum) – dai Diecimila Martiri dello stesso pittore, una meditazione drammatica sul lessico di Michelangelo temperata dalla conoscenza di Dürer e preceduta negli spazi del museo dalle opere del suo maestro, l’Andrea del Sarto dell’effusa, fosca Madonna col Bambino e San Giovannino eseguita sul ’30.
Non a caso la colta cura che il progetto riserva alla produzione libraria animata in quegli anni dalla stamperia dei Giunti (è assai meditato il saggio di Antonio Corsaro sul tema) viene rinviata continuamente in catalogo al ricordo dell’impresa imposta a un intellettuale come Benedetto Varchi proprio da Cosimo I de’ Medici, e cioè il racconto dell’assedio confluito nell’avvincente Storia fiorentina: una memoria evidentemente considerata dal Duca di Firenze – negli anni quaranta, quando la sua posizione si era consolidata – fra i veri fondamenti del proprio dominio incontrastato.