Con una decisione che sta facendo parlare di sé, tre magistrate della Corte d’Appello di Trento hanno ordinato la trascrizione di una sentenza straniera che istituiva come secondo padre il compagno del padre genetico di due bambini nati da surrogazione.

Colpisce nell’argomentazione, di cui tralascio gli aspetti più tecnici, come, secondo il collegio, il divieto di surrogazione di maternità non esprima alcun principio di particolare valore dal punto di vista costituzionale; anzi esso viene piuttosto rappresentato come un vero e proprio disvalore in una società che voglia essere aperta alle differenze e tollerante, in cui le persone omosessuali possano vivere con pienezza i loro diritti, e i gay emanciparsi dallo svantaggio che li affligge nella procreazione.

Un’immagine negativa del divieto di surrogazione si diffonde facilmente: l’idea che esso sia discriminatorio ne oscura la reale portata, che consiste nel riconoscere la libertà delle donne nella generazione, insieme alla libertà della nascita: quel divieto, che sotto questo profilo a me appare diretta espressione dei valori personalistici della nostra Costituzione, tiene fermo il punto che nasciamo dentro una relazione, quella con nostra madre, non dentro uno studio notarile, come prodotto di una clausola contrattuale. E’ grazie a ciò che ogni nascita è una nascita umana, vale a dire la nascita di qualcosa che eccede i piani e i programmi, i codicilli e i contratti, che è un fine in sé e porta ogni volta nel mondo quel tanto di imprevisto, che fa di noi creature che si sanno libere.

Oggi però si fa largo l’idea – non estranea all’argomentare delle giudici di Trento – che nascere in un “progetto di genitorialità”, comprendente un pacchetto di surrogacy services, quasi quasi è meglio che nascere (anche per caso, come può accadere) in un rapporto spontaneo, non regolato punto per punto, come spesso e anzi solitamente è l’amore, e di sicuro è la vita. Perché è meglio? Solo nella prima ipotesi sei certo che i tuoi genitori sono benestanti e non costerai al welfare, con beneficio per le casse statali. Conviene a tutti, chi non lo vede? Basta con questa libertà di mettere al mondo figli, che poi, chi li paga?

La surrogazione di maternità si intona malinconicamente a un clima dei tempi, che ci vuole fattore statistico di un mondo sociale ridotto a fatto contabile.

Escludo però che le giudici di Trento siano state mosse da idee di questo genere (che pur spiegano, ne sono certa, il favore planetario che la surrogazione gode nel pianeta del neo-liberismo), come escludo che motivazioni di questa natura abbiano alimentato i redattori e le redattrici delle decisioni che, per una via argomentativa o per un’altra, hanno riconosciuto legami sorti da surrogazione di maternità. Confesso di pensare spesso, dentro di me, che ciò che spinge i giudici a riconoscere come famiglia anche quella nata da surrogazione è alla fin fine quello stesso bene che la surrogazione aggredisce, ossia il materno, posto che è proprio la relazione materna la primissima, sebbene non la sola, in cui impariamo le cose impalpabili che ci rendono capaci di capire gli altri, e consci dell’importanza della cura, dell’amore e dell’affetto. Certamente agisce però una profonda istanza di equità, trasmessa dai principi del diritto: nessuno risponde di una responsabilità che non è sua, e dunque è evidente che non devono essere i figli a pagare per il modo in cui altri ha deciso di farli venire al mondo.

Spesso però, sulla spinta iniziale dell’equità fa premio nelle decisioni giudiziarie l’ansia di fissare nuove regole generali, e di tracciare un ordine geometrico; così accade nell’ordinanza trentina, dal cui fraseggio, almeno per come io lo percepisco, traspare la catena logica: se si possono avere bambini con la surrogazione, sia eliminato il divieto, che ostacola il pieno dispiegamento del diritto alla genitorialità.

Questa conseguenza, però, non discende affatto dalla premessa. Lo dimostra la Corte di Strasburgo, che non teme di attingere pienamente all’equità e si limita a ragionare così: il fatto che in un paese sia vietata la surrogazione non impedisce il riconoscimento dello status di figlio dei committenti, e dei loro partner, ai bambini che, nati all’estero con la surrogazione, abbiano documenti di stato civile conformi alla legge del luogo in cui sono nati e si trovino in relazioni di tipo familiare che soddisfano il loro miglior bene.

I diritti dei bambini non sono ostacolati dal divieto di surrogazione e da essi non nasce il diritto di alcuno di acquistare una madre surrogata, perché sono cose diverse, ciascuna col suo valore e il suo disvalore.

Sentenze che facessero propria questa impostazione prudente io le accoglierei volentieri, come altrettanti inviti a esplorare le risorse di una logica della compossibilità, senza la quale – è bene rifletterci – di aprirci alle differenze parliamo del tutto invano.