È una vera e propria epica quella che si snoda in questo monumentale romanzo di Joshua Cohen. Titolo lapidario, Il libro dei numeri (Codice edizione, pp. 743, euro 25, traduzione di Claudia Durastanti), per raccontare l’avvento fosco e niente affatto patinato dell’era dei Big Data. Un ghostwriter viene chiamato a scrivere la biografia di un boss dell’hi-tech. Forse il riferimento è a Mark Zuckerberg, a Larry Page, a Jeff Bezos, allo scomparso Steve Jobs, ma poco importa stabilire chi si cela dietro il nome del protagonista che ha lo stesso nome della voce narrante. Da una parte un uomo di penna che considera la tecnologia uno strumento da usare e gettare come un rifiuto quando il bisogno è stato soddisfatto, a differenza invece del boss che ritiene il computer e i numeri una leva per innalzare la società e la vita di uomini e donne. Bellissime le pagine dedicate all’algebra booleana e al potere performativo, normativo della successione e combinazione di zero e uno, cioè gli unici numeri che fanno funzionare microprocessori e macchine «intelligenti».

L’epica sta nel confronto tra lo scrittore e il manager, due figure idealtipiche per indicare altrettanti modi di vita. Il primo è un irregolare, sia nelle abitudini alimentari che sentimentali. Consuma porno, alcol e cibo indifferente a ogni cosa; l’altro è un salutista amante di uno stile di vita sobrio e in «decrescita» anche se sta edificando un mondo che consuma energie e risorse come mai è accaduto nella storia dell’umanità. Si annusano, squadrano, confrontano, cercando di capirsi anche se non necessariamente empatici l’uno con l’altro. È il classico confronto tra cultura umanistica e cultura scientifica squadernato tuttavia nei suoi aspetti meno nobili: l’ambizione, l’arroganza intellettuale, la violenza psicologica esercitata sui simili per raggiungere i propri obiettivi. La tensione tra diversi modi di guardare il mondo non sfocia mai nel conflitto, perché entrambi le attitudini pensano se stessa come espressione di una verità assoluta mentre invece altro non sono che due volti di una stessa medaglia. Sono modi di vedere complementari.
Joshua Cohen è uno scrittore che non ha timore di confessare il suo proposito di voler fare grande letteratura; vuole usare la parola per comprendere il mondo, senza che questo coincida con la ricerca del successo e della fama. Ha appreso tuttavia la lezione del postmoderno, cioè che la retorica sulla fine delle grandi narrazione nasconde il proposito ideologico di una narrazione spicciola e funzionale al mondo così come è. Per lui, la parola può tornare a essere il modo per comprendere e migliorare il mondo.

Nella tradizione culturale ebraica i numeri sono sempre importanti. Nella Kabbalah sono vere e proprie chiavi per aprire le porte della conoscenza. Potremmo leggere il suo romanzo come una grande epica postmoderna sulla conoscenza della vita. Per molte pagine, l’uomo dei numeri più che essere il boss dell’impresa hi-tech, sembra essere in realtà il protagonista del romanzo. Lei che ne pensa?
Una premessa è indispensabile. L’oggetto, il cuore del romanzo è la transizione da una civiltà della letteratura a un’era dei numeri. Con questo intendo, ma sono in una folta compagnia di scrittori e studiosi, un passaggio epocale da un’era che potremmo definire umanistica a un’altra dove la dimensione della vita è ridotta a una successione di numeri, a una loro combinazione. Dunque quello che ho voluto fare era di scrivere attorno a questa trasformazione, giunta al suo acme. Mi interessava affrontare il collasso della letteratura, e forse dell’attitudine umanista, mentre si consuma l’ascesa dell’era dei dati. Nulla di tutto ciò può essere fatto risalire alla tradizione ebraica. Ogni religione ha però il suo risvolto mistico e anche io ne sono colpito, interessato. Così quando stavo scrivendo Il libro dei numeri questo elemento del misticismo – presente nelle grandi religioni monoteiste – è emerso all’interno della problematica di come esso possa o meno avere la capacità di raccontare la realtà.
Prima della diffusione dei computer, moltissimi esseri umani hanno dedicato le loro energie intellettuali e moltissimi anni della loro vita leggendo e rileggendo le parole delle Scritture non solo come parole ma come appunto numeri che sapessero descrivere il mondo e le vicende umane nel loro divenire. Hanno cioè assegnato un valore numerico a quanto leggevano e vedevano svolgersi davanti ai loro occhi. Sommavano, sottraevano, dividevano qual che leggevano ed esperivano convertendo poi il risultato di queste loro operazioni matematiche in lettere, parole. Possiamo dire che traducevano loro stessi da numeri a parole. E viceversa. Uno degli argomenti del Libro dei Numeri è proprio questa tensione tra parole e numeri, tra la capacità della letteratura di narrare il mondo e un’era invece basata sui dati. Il manager hi-tech ha però una sorta di attitudine mistica, da «gran mogol» perché crede fermamente che c’è un fondo sacro che può emergere, anzi che è già presente nell’atto di combinare numeri. Allo stesso tempo, però, anche il ghostwriter crede fermamente che possa emergere una dimensione sacra dalla combinazione di parole e lettere. Entrambi sono dei mistici; entrambi confliggono, battagliano per decodificare la «verità» che si cela nella loro vita e nell’esistenza umana in generale al di là di ogni possibile superstizione; e delusione maturata in vita.

La Grande Storia e le piccole, ordinarie storie. Nel romanzo il loro intreccio è costante. Mai prevale l’una senza le altre. L’attacco alle Torri Gemelle determina la fine precoce del successo dello scrittore. È costretto così a diventare un ghostwriter. Anche la Shoah cambia la sua vita. È lo spunto, lo sfondo del suo primo e unico romanzo. Questo intreccio tra grande storia e piccole e ordinarie storie individuali è però irrisolto, rimane sospeso in uno schema di causa ed effetto …
Per usare la sua terminologia la Shoah è la grande Storia che racchiude quella di milioni di uomini e donne ordinarie. Per ciò che io conosco e ho appreso dagli ebrei provenienti dall’Europa, la Shoah può essere pienamente compresa e soprattutto raccontata da chi è sopravvissuto ai campi di sterminio; può essere rappresentata nella sua successione ordinaria di tragici fatti. Leggere i loro racconti cambia tuttavia la prospettiva. È questo legame tra presa di parola e sua rappresentazione che può aiutare a comprendere le mille fila che legano Grande Storia e storia ordinaria

Il boss è un uomo di potere. Il suo entourage è simile a una struttura sociale medievale. Nel romanzo ci sono ampie parti dove emerge una sorta di comparazione tra la società americana e il mondo di Dubai. E molti di più sono i punti di contatto che le differenze, almeno per quanto riguarda i rapporti di potere. Possiamo dire che gli Stati Uniti stanno diventando una società con una struttura medievale?
Non sono sicuro di capire bene cosa intende con la parola America. Ho però una certa familiarità con l’ordine del discorso emergente in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale sulla americanizzazione della cultura europea. Potrei dire che c’è una certa ironia della Storia nel sostenere che più che una americanizzazione dell’Europa stiamo assistendo a una feudalizzazione dell’America. In ogni caso non credo che stiamo assistendo al dispiegarsi di questo processo. Sono convinto che le dinamiche in atto siano difficili da comprendere, ma non hanno molto a che vedere con un dilagare del modello feudale. Tutti gli ideali che hanno retto le nostre concezioni del mondo – la centralità dello stato nazione, l’autonomia personale come valore assoluto – stanno rapidamente per essere sostituiti da una forte concezione della comunità, dalla centralità delle identità: elementi, entrambi, che ridefiniscono i confini e i contorni sia delle comunità che delle identità. Il mondo contemporaneo è un aggregato di mondi, di diaspore, di tribù all’interno tuttavia di una incessante comunicazione tra di essi. Questo sono gli Stati Uniti. Possiamo però dire che tale comunicazione tra i tanti mondi esistenti definisce la mappa di ciò che sono ora gli Stati Uniti. Azzardo l’ipotesi che tale comunicazione potrebbe offrire una mappa di ciò che è ora l’Italia. O la città, il quartiere dove vivo io e la mia famiglia.

Il boss del libro è una figura simbolica di un modello di vita diventato egemone nel mondo, quello della Silicon Valley. Questo manager presenta se stesso come un uomo che sta costruendo una nuova società, migliore di quella precedente, e con questo favorisce la formazione di un essere umano nuovo. È sì interessato ad accumulare denaro e capitali, ma forse altro non è che un uomo dei numeri, così come ce ne sono stati tanti nella cultura ebraica…
Il «mogul tecnologico» non è interessato solo ad ammassare denaro. Vuole costruire qualcosa che sopravviva alla sua morte. Ciò non è sbagliato. Se poi questo significa arricchirsi o avere potere non è sua la responsabilità. Quel che mi interessa del modello della Silicon Valley è che tutti credono di stare cambiando la società, di costruire ciò che lei chiama «uomo nuovo».
Chi lavora nell’hi-tech crede fermamente di stare costruendo un mondo migliore di quello del passato. Ciò che è rilevante non è il fatto che possano arricchirsi, bensì che perseguano questo obiettivo di nuova società con determinazione e talvolta con un tasso variabile di fanatismo.

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Ospite oggi a Bologna, domani a Mantova

Joshua Cohen ha avuto la sua formazione all’interno della diaspora ebraica statunitense, dove l’assimilazione e l’integrazione è uno dei tratti distintivi. Certo, la tradizione ebraica è sempre presente nei suoi romanzi, ma nella sua forma interrogativa, mai piegata su una identità immobile nel tempo e nello spazio. Oltre a «Il libro dei numeri», lo scrittore statunitense ha pubblicato « Witz» (Dalkey Archive Press), «L’altra occupazione» (Codice edizioni). Joshua Cohen sarà in Italia per presentare il suo romanzo. Oggi sarà a Bologna (ore 18, Libreria Coop Ambasciator) con Francesco Pacifico. Venerdì 6 settembre sarà al Festivaletteratura di Mantova in dialogo con il matematico Claudio Bartocci. Sabato 7 settembre sarà a Milano (ore 17, Libreria del Tempo Ritrovato) con Claudia Durastanti (che ha tradotto «Il libro dei numeri») e Philip Di Salvo.