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Il «dito» di Grillo e la «luna» della censura bipartisan

Il «dito» di Grillo e la «luna» della censura bipartisanRenzi sui banchi del governo con il telefonino – Ansa

Informazione e bufale Le dichiarazioni di guerra del coro anti-web mirano a trasformarsi in disegno di legge addirittura europeo. Non si tratta peraltro di una battaglia culturale ma di un nodo del tutto politico, quanto e forse più di una legge elettorale

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 4 gennaio 2017

L’uscita è certo truculenta, del resto in linea con lo stile del «vaffa-day». Ma le reazioni alle «giurie popolari» incaricate di giudicare i giornalisti bugiardi adombrate da Grillo vanno fuori dalle righe di chilometri. Dal Pd a Forza Italia passando per la Lega, dall’ordine dei giornalisti alla Fnsi, le agenzie si riempiono di dichiarazioni fiammeggianti che scambiano la palese provocazione di Grillo per proposta seria e compiuta.

Per Schifani (Fi) siamo alla «riesumazione dei nefasti tribunali del popolo». Il portavoce di Sc Rabino ci vede invece un tocco di Orwell. Esposito, il mangia no-tav del Pd, preferisce le citazioni facili: «Si chiama fascismo». Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia, individua una sorta di manifesto programmatico: «Non è una battutaccia: è un’idea di paese». Poi ci sono «il Minculpop», la «pericolosa deriva oscurantista» e la stessa Fnsi si spinge sino a denunciare «il linciaggio mediatico di stampo qualunquista». Più sobrio, l’Ordine dei giornalisti invita il genovese a valutare «le conseguenze delle sue parole», senza tuttavia glissare sull’ «ennesimo attacco alla libertà di stampa».

Il più drastico è Enrico Mentana, direttore del Tg7, che querela dal momento che, a corredo dell’intemerata, il blog di Grillo pubblicava un collage di testate tra le quali proprio quella del Tg7. Lo stesso Mentana, peraltro, era stato uno dei pochi a prendere posizione contro la minaccia di censurare il web che ha innescato l’intera querelle.

Perché se in effetti la battuta di Grillo non è stata tra le più felici, è anche vero che, estrapolata a bella posta dal contesto, risulta molto più censoria di quanto non sia. La pioggia di dichiarazioni indignatissime di ieri glissa infatti sul particolare che vede Grillo contrattaccare dopo una minaccia di censura sulla rete tanto autorevole da meritare l’unico passaggio esplicito e privo di ogni diplomazia da parte del capo dello Stato, nel suo discorso di fine anno: «Internet va preservata e difesa da chi vorrebbe trasformarla in un ring permanente, dove verità e falsificazione finiscono per confondersi».

Prima di lui c’erano stati il presidente dell’Antitrust Pitruzzella con la richiesta di «regole europee» contro le «bufale in rete», e il ministro della Giustizia Orlando, pronto a bandire la crociata contro «i social diventati principale veicolo dei messaggi d’odio». Subito dopo il presidente è arrivato di rincalzo l’immancabile Orfini.

Di fatto, sia pure nei metodi discutibili che predilige, il leader dell’M5S non ha fatto altro che rispedire al mittente l’accusa di disinformare e mentire, però con una non trascurabile differenza: quella del pentastellato è in tutta evidenza una provocazione mentre le dichiarazioni di guerra del coro anti-web mirano a trasformarsi in disegno di legge addirittura europeo.

Non si tratta peraltro di una battaglia culturale ma di un nodo del tutto politico, quanto e forse più di una legge elettorale.

Subito dopo il referendum del 4 dicembre Renzi commentava con il suo stato maggiore la disfatta attribuendone la responsabilità all’incapacità del Pd di combattere la battaglia in rete, nei molto citati ma poco compresi social.

Dopo la vittoria di Trump, peraltro, uno degli elementi considerati più clamorosi era stata proprio la scoperta che neppure uno schieramento massiccio, unanime e sfegatato dei media «istituzionali», le tv e la grande stampa, è più in grado di condizionare l’opinione pubblica e le scelte degli elettori.

L’assenza di controllo sui social, come del resto ammetteva Pitruzzella, è considerata «uno dei motori del populismo» e di conseguenza «una delle minacce alla nostra democrazia». Con meno ipocrisia si dovrebbe dunque parlare non di una crociata contro «le bufale in rete», le quali finché non degenerano in calunnia rientrano nella sfera della libertà di parola, ma di una campagna contro «il populismo», che in Italia si traduce essenzialmente in fuoco di sbarramento contro l’M5S.

Si può accusare Grillo di aver risposto sullo stesso tono, ma che proprio chi medita interventi censori si faccia passare per paladino della libertà di parola non è un gran servizio reso alla verità, né nei post né fuori.

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