Esistono al mondo personalità imperiose «convinte che la felicità spetti loro di diritto, che si calano sulla vita come parà e la sottomettono con la violenza». Personalità che non si accontentano della porzione di tempo riservata loro da un limitato tratto di giovinezza, ma scavalcano le ferree recinzioni naturali per andare a prendere ciò che hanno lasciato indietro, come sovrani liberi di scorrazzare per un territorio troppo ampio per un singolo individuo. E così arrancano, si perdono, pagano lo scotto di una mancata conoscenza di un paese che in realtà non hanno mai dominato e che resta una terra straniera.
L’ultimo romanzo che l’olandese Tommy Wieringa, classe 1967, autore da mezzo milione di copie in patria, tradotto tutto il mondo – non solo in Europa – ha appena presentato al Salone del Libro di Torino, Una moglie giovane e bella (tr. di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, Iperborea, pp.115, euro 14), racconta la storia di Edward Landauer, un affermato virologo olandese alla soglia dei cinquant’anni, che deve la sua fortuna sia agli studi sull’Hiv (venticinque anni prima il suo professore di virologia portò dall’America il virus isolato dell’Aids nel taschino della giacca per studiarlo con la sua équipe, «un aneddoto leggendario»), che a quelli sull’H5n1. I suoi successi e la sua vita sono cresciuti all’interno di un ospedale universitario, «un casinò nel deserto: si può vincere, si può perdere», ed Edward ha vinto. Premio: prestigio, una cattedra universitaria, lauti contratti con le case farmaceutiche e uno stuolo di donne ai suoi piedi.

Finché incontra lei, la giovanissima e biondissima Ruth, un’idealista studentessa di sociologia, vegana, animalista, un sedere da far perdere la testa e, soprattutto «nessuna stanza segreta», una solida interiorità tutta alla luce del sole. È la donna ideale, il tassello mancante in un puzzle ormai quasi completo, perfetta per diventare – ed è presto fatto – «una moglie giovane e bella» da esibire alla società e con la quale colmare un buco esistenziale che con il passare degli anni comincia ad allargarsi sempre di più. Ma se Ruth è l’ultima possibilità per arrestare l’incombente declino di un uomo che ha avuto tutto, ma che ha oramai perduto la giovinezza, allora forse non c’è più salvezza, perché la lotta tra i sessi e le generazioni si rivela presto impari.

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Lo scrittore Tommy Wieringa

Per molti versi, il suo romanzo può ricordare «L’animale morente» di Philip Roth: un uomo affermato, ormai avanti negli anni, perde la testa per una donna giovanissima che vede come l’ultima possibilità di riscatto in una vita in cui non manca più nulla, tranne «il futuro». E così l’incontro tra il passato (Edward) e il futuro (Ruth) avviene attraverso il presente del sesso, un effimero e puntiforme luogo d’incontro destinato a lasciare ferite profonde…

Sì, non è la prima volta che Una moglie giovane e bella viene paragonato all’Animale morente… In realtà ho costruito il mio romanzo mettendo insieme diverse storie che mi sono state narrate da conoscenti nel corso degli ultimi quindici anni. Il racconto decisivo è stato quello di una cara amica, una donna bellissima che mi raccontò di aver conosciuto il compagno in un distributore di benzina: ventotto anni lei, cinquantadue lui, entrambi appassionati di motori, lui aveva una Lamborghini rossa. Hanno iniziato una relazione. Lui un uomo ricco, affermato, la classica vecchia storia: belle donne e belle automobili. Eppure sapevo quale sarebbe stata la sua risposta alla mia domanda su chi dei due si fosse tirato indietro quando tra loro c’era una discussione: lui.
È la paura, paura di perdere non tanto un bene materiale, ma una possibilità. Questa donna è per lui l’ultima possibilità, probabilmente non avrà altre occasioni dopo di lei per possedere ancora la bellezza, per questo non può permettersi di perderla. La differenza tra un uomo e una donna tra i quali c’è una grande sproporzione anagrafica non si misura in termini di energia, di forza fisica, ma in termini di possibilità, di futuro, di cambiamento. È ciò che dalla cattedra universitaria Edward dice ai suoi studenti: io ho denaro, una posizione, ma voi siete infinitamente più ricchi di me, perché voi avete il futuro.
Ruth è perciò l’ultima occasione per Edward, e lui deve cedere dinanzi alla sua tirannia: non avrà altre possibilità di avere una donna giovane e bella…

Oscar Wilde diceva che nel mondo tutto ha a che fare con il sesso, tranne il sesso stesso, che è potere…
È esattamente così, la relazione tra queste due persone è, in ultima analisi, una relazione di potere. Tutto è potere, assolutamente. Possibilità significa di fatto «potere»… All’inizio del romanzo forse non si vede molto, ma alla fine si capisce quale sia il nucleo del problema. Ruth si trova davanti un uomo «debole», senza difese interiori, è un individuo in fase di rinuncia.

Forse il problema di Edward è proprio la mancanza di un vero sé: è una costruzione della società, è tutto ciò che la società contemporanea si aspetta da un uomo cosiddetto «di successo», ma poi la facciata non resiste agli urti del tempo. Emblematica è l’affermazione che lei fa a proposito di Ruth allorché Edward nel conoscerla si rallegra di non trovare in lei «stanze segrete»… Come si configura, nel suo romanzo, la dialettica tra interiorità ed esteriorità dei personaggi?
La prima volta che Ruth va a casa di Edward resta sconvolta nel vedere che il suo appartamento è completamente vuoto. Potrebbe essere benissimo una stanza d’albergo, e così la occupa, ci mette tutti i suoi oggetti, e lui non c’è più. Questa è l’interiorità di Edward. L’altro suo problema è che non è capace di empatia, non riesce a mettersi in contatto con il resto del mondo, mentre Ruth, animalista convinta, è connessa con questo dolore, e lo accusa di non provare pietà per le cavie del suo laboratorio. Non è un caso che Edward abbia trascorso la vita dietro alla lente di un microscopio, senza mai essere in contatto con il dolore. Lo scienziato è così, prende le distanze: guardare il mondo attraverso un microscopio o un telescopio è in fondo la stessa operazione: le cose hanno le medesime dimensioni, che non sono quelle reali. Ma alla fine del romanzo c’è una catarsi. Quando Ruth lo accusa di essere la causa della malattia del loro figlio, qualcosa comincia a cambiare, lui deve allontanarsi, perde tutto ciò che ha, anche se forse non lo perde davvero. llo abbandona, perché la sua distruzione viene da dentro ed era un qualcosa che c’era già prima. Non gli resta più nulla, è come Giobbe sulla cenere che si gratta con i cocci, eppure c’è un piccolissimo segno di rinascita, quando nota una piccola ragnatela appesantita dalla rugiada sui fili d’erba davanti alla cabina del campeggio. Forse c’è ancora un po’ di speranza.

Proprio nelle prime pagine del romanzo c’è una frase a proposito del protagonista che dice: «Edward finse un dolore che era autentico», è un’affermazione potente, illustra un sentimento vero che però dev’essere mediato, masticato e metabolizzato dal mondo – attraverso la duplicità di una finzione – per poter venire espresso e infine accettato. Accade proprio così, per tutti noi?
È una delle mie frasi preferite nel romanzo, purtroppo la traduzione tedesca non l’ha resa in modo da farla spiccare come risulta invece giustamente nella traduzione italiana. Tutto il romanzo ruota intorno al tema del dolore. La nostra è una società che lo esorcizza in ogni sua forma, il lavoro di Edward, all’insegna del distacco, ne è una dimostrazione.
Tutto ciò che è morte è negato, esorcizzato. Dobbiamo tornare a metterci in rapporto con questo dolore, se vogliamo una vita autentica.