Una corporatura prorompente che trasuda sazietà e apparente ottimismo, Valerio Binasco scrive la cifra del suo Don Giovanni già nella fisicità di Gianluca Gobbi, nel ruolo del protagonista, quasi a volerlo ricondurre nell’alveo di una spaventosa quanto ordinaria umanità dei nostri giorni.
La rivisitazione del testo di Molière (al Teatro Carignano fino al 22 aprile) del nuovo direttore dello Stabile torinese convince per l’attualizzazione del mito, anzi per la sua smitizzazione, e l’omaggio in forma di prologo a Tirso De Molina, sottolinea il distacco dal personaggio decadente e romantico della tradizione per rifarsi a figure del nostro presente, a quei comportamenti compulsivi riconoscibili (non solo) nelle nuove generazioni, abituate a un consumo bulimico di oggetti, emozioni e affetti, che purtroppo troppo spesso approda a un autolesionismo anoressico.

E giovane infatti è questo don Giovanni esaltato, trasgressivo e disubbidiente, con le braccia tatuate e il chiodo, esibizionista delle sue azioni ignobili, considerate tali dalla morale comune (e religiosa), ma anche da chi con più laico sentire proprio quella velocità di consumo di passioni, sentimenti e cose detesta. Vorace e dissoluto, in compagnia del viscido e servile Sganarello (un bravo Sergio Romano), don Giovanni è preda di una iperattività: mentre mostra tutta la sua indifferenza verso la sedotta e abbandonata donna Elvira è già nel vortice di una nuova inutile passione.

Pronto a partire – e a morire – per soddisfare ogni sua voglia improvvisa, come un tossico reitera il medesimo copione all’interno di quegli archi scenici moltiplicati di color rosso cupo, disegnati da Guido Fiorato, che scorrono in orizzontale a incorniciare le sue turpi azioni, sotto le luci di Pasquale Mari.

Brava e misurata tutta la compagnia (citiamo almeno Nicola Pannelli, Elena Gigliotti, Giordana Faggiano, Fabrizio Contri) che, accompagnata dalle musiche di Arturo Annecchino, aderisce al progetto registico e avvicina con chiarezza ogni personaggio al nostro quotidiano. Primo lavoro dalla nomina a direttore, Valerio Binasco compie un percorso in sottrazione di ogni intellettualismo e di rimandi alla figura del libertino «rivoluzionario» della morale dettata dalla Controriforma per lasciare don Giovanni nella sua solitudine bulimica, senza alcuno scopo da perseguire e valori in cui credere. In questo buco sembra finita la nostra società occidentale