Nel 2012 uscì un volumetto intitolato Ti racconto una cosa di me (edizioni di passaggio) in cui trentadue tra scrittrici e scrittori di lingua italiana commentavano una fotografia vernacolare, tolta dal loro album di famiglia o comunque dal cassetto delle loro memorie. Si trattava, per le curatrici, Ivana Margarese e Giorgia Tolfo, di un esperimento volto a verificare se il rapporto tra fotografia e letteratura all’inizio del terzo millennio presentasse ancora quella asimmetria che lo aveva caratterizzato fin dall’avvento del dagherrotipo.
In effetti, pur ponendosi ciascuno in maniera personale nei confronti della foto scelta – chi usandola come madeleine proustiana, chi come sorta di specchio identitario o premonizione di futuri destini, chi ancora come rappresentazione di oggetti evocativi o appunto visuale per successivi sviluppi narrativi o poetici – tutte le autrici e gli autori finivano per affermare, in maniera più o meno esplicita, il predominio della parola sull’immagine, ovvero la comune certezza di poter conferire un significato agli scatti scelti solo attraversandoli con le parole.
A distanza di un decennio, grazie al volume di Maria Teresa Carbone, Che ci faccio qui. Scrittrici e scrittori nell’era della postfotografia (Italo Svevo, pp. 147, euro 20), scopriamo che la diffidenza dei letterati nei confronti della fotografia, o meglio, la loro assoluta convinzione della preminenza della parola sull’immagine, risulta invariata.

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ATTRAVERSO UNA SERIE di domande poste a scrittrici e scrittori che pubblicano le loro foto su Instagram, Carbone cerca di scoprire se e come lo scattare fotografie e condividerle sui social influisca sulla scrittura e in quale rapporto quest’ultima si ponga con la trasformazione della fotografia stessa in quella che Pierre Bourdieu avrebbe chiamato «arte media», espressione di massa e tramite per un’attività sociale, la condivisione delle immagini.
La sfida è stimolante: se, come ha acutamente rilevato Joan Fontcuberta nel suo saggio seminale La furia delle immagini, considerando che oggi le foto funzionano come messaggi che ci inviamo l’un l’altro, la fotografia da scrittura è divenuta linguaggio, come si rapportano autori e autrici che frequentano i social a questa modalità di condivisione in cui naufraga l’idea della creazione individuale? Nota ancora Fontcuberta che Internet non solo ha dissipato la nozione statica di autore, ma ha enfatizzato la frattura tra informazione e oggetto: non si tratta più tanto di creare, quanto di comunicare: nell’era postfotografica, «il senso non deriva più dal contenuto delle immagini, ma dalla loro gestione e circolazione».
Paradossalmente, invece, coloro che Carbone ha intervistato sono concordi nell’uso di Instagram come piacevole distrazione, palcoscenico autopromozionale, riserva di appunti per scritti futuri: in nessun caso, però, sottolineano l’importanza della condivisione o del rapporto con gli altri utenti (al massimo, qualcuno ammette il piacere del consenso suggerito dai like); molti, poi, rimpiangono l’Instagram del passato, quando non era prevista interazione scritta.
Del resto, nessuno mostra di attribuire grande valore alle immagini postate online: la fotografia è solo «attività ludica» (Bortolotti); al massimo, essendo «senza pretese e senza conoscenze tecniche» (Janeczeck), gli intervistati si considerano dilettanti «nella peggiore accezione» (Mozzi) o addirittura «neppure dilettanti» (Pincio).

 

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QUESTA MODESTIA tradisce l’ancora radicata convinzione che «le foto hanno bisogno di parole per essere lette» (Janeczeck), «lo scrittore non deve mettersi al servizio del visibile» (Pincio) e addirittura, oggi più che mai, nel confronto con l’immagine, la parola occupa una posizione di forza, «non di forza relativa all’immagine, di forza assoluta» (Pugno).
Non per caso, l’unica voce fuori dal coro è quella di Sabrina Ragucci, artista visuale oltre che romanziera, la quale non solo chiarisce che «Instagram è il luogo dell’algoritmo, non è la fotografia», ma è anche la sola a rilevare come il fuoco principale dell’intervista di Carbone sia chiaramente il testo, non l’immagine. «Nessun artista visivo funziona così», afferma Ragucci, rilevando che «la fotografia è un fattore trasversale nei discorsi contemporanei: teoria, critica, letteratura o filosofia».
Giustamente Andrea Cortellessa chiude la sua brillante postfazione chiosando con queste parole la conclusione di Fontcuberta secondo cui nell’era della postfotografia abbiamo perso la sovranità delle immagini e vogliamo recuperarla: «Col primo lemma di questa frase scommetto che converrebbero tutti gli scrittori interpellati; mi chiedo quanti di loro sottoscriverebbero il secondo».