Si sale per lo scalone monumentale della Pilotta. Si attraversano le sale della Galleria nazionale che è quasi un compendio di storia dell’arte. Si lancia uno sguardo fugace alle sembianze marmoree di Maria Luigia, ritratta dal Canova nelle vesti della Concordia, ineludibile genius loci della città che nella memoria di lei ancora si sente un po’ capitale. Per arrivare in fondo all’ala nord del palazzo, dove una fila di letti ospedalieri di metallo, girati su un fianco, scandiscono lo spazio scenico in cui si installa la riscrittura de La vida es sueño proposta da Lenz (questa sera l’ultima replica).

CAPITALE PARMA lo sarà il prossimo anno. Capitale della cultura 2020. E questo spettacolo è infatti una sorta di prologo alla messinscena del capolavoro di Calderón de la Barca che l’ensemble guidato da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto prepara per la prossima stagione. Regista e dramaturg si sono rivolti in questa occasione all’auto sacramental composto da Calderón una quarantina d’anni dopo il più celebre dramma, cioè a una forma teatrale di carattere quasi liturgico, alle soglie della sacra rappresentazione. Qui scolorisce la vicenda del giovane principe imprigionato in una torre dal padre per il timore di una funesta predizione, che sembra avverarsi nel momento in cui viene liberato; sicché, quando è riportato nella sua prigione, è spinto a credere di aver vissuto quel furioso momento di libertà soltanto in sogno. La scena si popola invece di figure allegoriche impegnate in un continuo dialogo morale sui margini di quella vicenda, richiamata dallo scorrere di una lunga catena fra le mani di un vecchio e di un bambino fra cui si sdoppia l’«uomo» che adombra il protagonista assente Sigismondo.

ECCO allora che Potere, Sapienza e Amore prendono il corpo agile di tre ragazzine che percorrono di corsa il lungo spazio scenico celate dietro maschere animali e un coro di donne anziane dà voce ai quattro elementi naturali, identificati dai diversi colori del costume. Mentre sui grandi schermi che fronteggiano la fila degli spettatori la figura di Giobbe di un dipinto d’epoca barocca, che sta in una delle sale della Galleria, si dissolve ripetutamente nell’immagine in lentissimo movimento di una delle giovani interpreti. E in lontananza risuona una musica che pure allude a quell’epoca passata. E c’è anche un vecchio Lucifero reso claudicante dalla caduta dall’alto dei cieli. E una misteriosa figura di donna fasciata di lattice (è Sandra Soncini, icona del teatro di Lenz) che va avanti e indietro reggendo un’allusiva sfera.
Ma quando quei letti denudati di materassi e lenzuola recuperano la giusta posizione e gli attori vi si distendono sopra con quei loro corpi imbrigliati dentro costumi che sembrano non per caso strumenti di contenzione – corpi di anziani attori cantanti, di attori resi sensibili dall’aver attraversato la disabilità psichica, enfatizzati dal confronto con la giovinezza – il «disinganno» di Sigismondo ci appare assai meno simbolico e la realtà cui allude assai più vicina a noi.