Che cos’è un soggetto politico? Che cosa fa di noi, presi singolarmente o collettivamente, dei soggetti capaci di azione nel mondo? La risposta del liberalismo politico, da Locke a Smith fino a Cavell e Nozick, è che il soggetto è in primo luogo un individuo che possiede, in sé, le risorse per farsi azione nel mondo. La politica comincia con l’etica, con la costruzione di sé a partire da sé, e solo dopo incontra la questione dell’altro e della collettività.

La relazione con l’altro è espulsa dal cuore della soggettivazione, che si presenta come un rapporto trasparente e autosufficiente del sé con sé. Nessuno più di Michel Foucault ha visto questo paradosso della padronanza di sé implicito nella mitologia tutta «occidentale» della soggettività. Per lui il soggetto non poteva essere un nucleo di volontà autosufficiente, ma sempre, in primo luogo, relazione. Foucault ha scelto, fin dal primo dei suoi corsi al Collège de France, nel 1970-71, Lezioni sulla volontà di sapere, di indagare sperimentalmente l’ambito delle relazioni costitutive della soggettività a partire dal ruolo politico che vi svolge la verità: verità ambigua e controversa di un sapere medico e psichiatrico dell’anima, verità di una «natura sociale» dell’uomo che permette di governarlo, verità oscura e pericolosa, nascosta nel più profondo di un sé che bisogna imparare a decifrare per governare gli altri e condurre se stessi senza perdersi nel peccato e nella tentazione.

IL CORSO DEL 1981, Soggettività e verità, ora tradotto in italiano da Deborah Borca e Carla Troilo (a cura di Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, pp. 352, euro 35) è uno snodo essenziale di tale progetto, e permette di gettare un ponte tra il corso del 1980, Del governo dei viventi, e quelli successivi, dall’Ermeneutica del soggetto a Il coraggio della verità, già noti ai lettori italiani. Se il corso dell’anno precedente attaccava il mito del soggetto della conoscenza situandone la nascita all’interno del problema del governo degli individui, nel 1981 è il soggetto del desiderio sessuale che viene passato al vaglio della genealogia, attraverso una manovra di arretramento storico nel I e II secolo, in epoca ellenistica e romana, «nel passaggio fra ciò che chiamiamo un’etica pagana e una morale cristiana».
In questo senso le lezioni proseguono il progetto di una storia della sessualità, cominciato nel 1976 con La volontà di sapere, e centrato sull’indagine dell’esperienza moderna della sessualità, di quella cristiana della carne, e dell’esperienza antica degli aphrodisia (i piaceri del sesso).

Il regime classico degli aphrodisia, infatti, era strutturato secondo un sistema di valorizzazione differenziata dei comportamenti che, invece che definire un insieme di interdetti e divieti, organizzava positivamente la «percezione etica» degli atti sessuali. Si trattava principalmente di due principi, il «principio di attività» – che valorizza la penetrazione e squalifica ogni forma di passività –, e il «principio di isomorfismo socio-sessuale», secondo cui la forma del rapporto sessuale coincide con la gerarchia socio-politica esistente.

IL SOGGETTO di questa economia degli aphrodisia era naturalmente il maschio libero e attivo, per cui era apprezzabile il matrimonio, segno e strumento di prosperità, così come il rapporto sessuale con uno schiavo o una serva, in quanto inferiori, ma non con una donna sposata, in quanto appartenente a un altro maschio.

Ciò che accade in epoca ellenistico-romana è che per una serie di processi storici, politici e sociali, la pratica, dapprima elitaria, del matrimonio si generalizza e diviene istituzione pubblica. La percezione etica degli aphrodisia si riconfigura nell’ambito della centralità della relazione coniugale, attraverso una localizzazione esclusiva della sessualità al suo interno, una devalorizzazione di ogni piacere sessuale e la costituzione di un’etica del matrimonio fatta di fedeltà, affetti reciproci e virtù coniugali: è l’invenzione della coppia.

CIÒ PROVOCA, oltre alla confisca dell’eros da parte della relazione coniugale, la rottura del «continuum socio-sessuale» che permetteva al maschio di imporre ovunque la propria sessualità, e conseguentemente la sua spaccatura in due forme di virilità: quella pubblica, che dovrà essere desessualizzata, e quella privata e coniugale, che dovrà essere continuamente sorvegliata, così da padroneggiare non solo i comportamenti, ma anche ciò che li precede, l’epithymia, il desiderio.

Nell’ambito dei doveri dell’uomo sposato che si autocontrolla, si compie il passaggio da una soggettivazione dell’attività sessuale in forma di atti a una «soggettivazione sotto forma di rapporto permanente di sé con se stessi», ed emerge il desiderio come «principio di oggettivazione/soggettivazione degli atti sessuali».

Il mondo greco-romano ha posto le condizioni per l’invenzione della verità del desiderio, preparando il terreno su cui il cristianesimo impianterà le tecniche di confessione e l’esperienza della carne.

Queste tesi storiche sono state espresse in seguito, in una forma più compiuta, nel terzo volume della Storia della sessualità, La cura di sé. La vera sorpresa del corso è piuttosto l’attenzione di Foucault per un certo tipo di «gioco di verità» connesso all’avvento del matrimonio come istituzione pubblica: il discorso elogiativo della sessualità coniugale tenuto dai moralisti, dai direttori di coscienza, dai filosofi, per lo più di scuola stoica.

È UN DISCORSO di verità che fa parte della letteratura sulle arti di vivere e di condurre se stessi, una letteratura che ha storicamente perso la sua autonomia per essere integrata nella formazione professionale e nella pedagogia (e infine nel «management di sé», potremmo dire oggi). Foucault si chiede quale sia la funzione di un discorso che esalta i doveri matrimoniali se nella società greco-romana, nel reale – come attestano gli storici –, il matrimonio e la sua regola erano già divenuti centrali: perché tradurre in una veridizione qualcosa che era già acquisito nei comportamenti reali?

Se certamente non è stato il discorso a determinare i processi storici, tuttavia la sua esistenza, il suo giungere al reale come evento, non si spiega in termini di rispecchiamento delle pratiche reali o di loro mistificazione ideologica. Il reale, di per sé, non reclama l’esistenza di un discorso che pretenda di dire il vero su questo reale, o di nasconderlo, o di razionalizzarlo. Le arti di vivere che prescrivono ai soggetti la trasformazione della propria esperienza di sé in relazione a una parola vera sono un «discorso di troppo», inutile – come ogni gioco di veridizione – rispetto alla presa che permette sul reale, ma efficace in termini di effetti di soggettivazione.

COME NEL CASO della follia, del crimine, o delle pratiche di governo, è l’inserzione dei giochi di verità sulle pratiche umane il luogo in cui vanno cercati gli effetti dei discorsi veri: in questo caso, quel luogo è il bios – la vita come soggettività e come rapporto con se stessi. Quei supplementi di verità che sono i discorsi filosofici sul matrimonio si presentano come technai peri ton bion, «tecniche di sé», procedure di soggettivazione che si incaricano di accompagnare il soggetto nella trasformazione del suo rapporto con se stesso, in modo che possa abitare e praticare il nuovo codice matrimoniale cambiando la percezione etica dei propri comportamenti sessuali.

QUAL È LA POSTA IN GIOCO politica di questo «discorso di troppo»? Foucault sembra suggerire che la filosofia, ogni filosofia, è sempre un «discorso di troppo» che appunto non determina né rispecchia la realtà, ma che si trova di fronte a un’alternativa: o essa funziona come un gioco di verità che permette al soggetto di adeguarsi alla morale dominante, ovvero, oggi, il credo liberale nel primato indiscutibile di un «sé» capace di determinarsi liberamente nel labirinto infinito delle relazioni di sé con sé; oppure la filosofia si definisce come una genealogia inquieta della soggettivazione in quanto processo costitutivamente preso in un insieme di relazioni politiche, e quindi asimmetriche, ineguali e non reciproche con gli altri.

Più che prescrivere delle buone pratiche di soggettivazione etica, essa disarticola la triade individuo/soggetto/sé per dissolvere l’illusione del sé eroico e performativo della società neoliberale. In questo senso, Soggettività e verità ci convoca a un’esperienza veramente politica e ci ricorda come la trasformazione della soggettività non possa essere scollegata da quella dei sistemi di valorizzazione differenziata dei comportamenti a cui rinviano tutte le morali, e che non cessano di interpellare un soggetto che si crea – da solo – in relazione a un’idea più o mena esplicita di padronanza individuale.