La condizione femminile è lo specchio della democrazia. Senza la partecipazione delle donne al processo decisionale la democrazia è imperfetta. Senza uguaglianza non può esserci democrazia. Sono i tre concetti chiave dell’intervento svolto da Kamala Harris il 16 marzo alla 65a Commissione dell’Onu sullo Stato delle donne, nel quale la vicepresidente degli Stati Uniti ha sottolineato che la salute della democrazia dipende dall’assunzione di una responsabilità collettiva verso i valori declinati nella Dichiarazione Universale del 1948, fra i quali la parità di diritti di tutti gli individui, senza distinzioni.

Il richiamo a quel documento, riconosciuto come Magna Charta dell’umanità, non poteva prescindere da un richiamo diretto a colei che ne fu la maggiore artefice, plasmandone spirito e contenuti, e alla quale è dovuta l’affermazione dello stretto legame tra uguaglianza e democrazia. «Eleanor Roosevelt una volta disse “Senza uguaglianza non può esserci democrazia”», ha ricordato Harris.

L’impegno di Eleanor nella tutela e nella promozione dei diritti delle donne maturò dalle prime esperienze nel volontariato sociale quando, appena diciottenne, tramite la Consumers’ League ebbe occasione di vedere le pesanti condizioni di lavoro e sfruttamento cui erano costrette nelle fabbriche di abbigliamento o nei grandi magazzini. Quel primo contatto con una realtà così distante dalle proprie agiate condizioni di vita di ragazza appartenente alla upper class newyorkese lasciò un segno profondo, che avrebbe condizionato l’intero arco della sua vita, facendo della questione femminile una delle principali tematiche cui avrebbe dedicato le sue riflessioni e azioni.

Il grande esordio di Eleanor nella rete dei movimenti femminili avvenne nell’immediato dopoguerra, quando entrò in contatto con la galassia di associazioni femminili che si battevano per la democrazia e la pace, i diritti delle lavoratrici e la giustizia sociale, divenendone presto leader riconosciuta. Negli anni Venti, l’impegno nella Women’s Division del partito democratico la costrinse a scontrarsi con la realtà dell’emarginazione delle donne nella macchina politica. Invitata dal Comitato statale del partito a presentare una piattaforma con i punti di maggiore interesse per le donne in vista della convenzione del 1924, Eleanor, con un panel di esperte attiviste, elaborò un documento: al primo punto c’era la parità di salario. Non fu neanche chiamata a presentarlo. Invano, restò fuori dalla porta ad aspettare. «Sul piano politico – scrisse in un articolo – alle donne non è riconosciuta alcuna intrinseca influenza all’interno del proprio partito. I meccanismi di gestione sono sempre stati nelle mani degli uomini e lo sono tuttora».

Era il 1928 ed erano trascorsi quasi dieci anni dalla conquista del suffragio femminile in tutti gli Stati dell’unione. La denuncia prosegue: «Sono dieci anni che le donne votano. Ma hanno raggiunto una vera uguaglianza politica con gli uomini? No. prendono parte all’atto di recarsi alle urne, i politici sollecitano i loro voti; e, apparentemente, possiedono gli stessi diritti. Si tratta, però, di un atto sostanzialmente privo di valore reale».

Le battaglie di Eleanor per i diritti delle donne e la parità di genere presero nuovo vigore quando, divenuta first lady a fianco di Franklin Delano Roosevelt, si attivò pubblicamente perché il New Deal – il grandioso piano varato nel 1933 dal presidente per far fronte alla Grande Depressione – venisse declinato anche al femminile. Gli sforzi furono ripagati. Un esempio, di forte valore simbolico: ai Ccc, i Civilian Conservation Corps che offrivano ai giovani senza lavoro un impiego in opere di manutenzione dell’ambiente, furono affiancati gli She, She, She Camps riservati a giovani donne; e quando seppe che il primo di essi, Camp Tera, aperto dalla Temporary Emergency Relief Assistance dello Stato di New York, non accettava ragazze di colore, non esitò ad appellarsi alla giustizia razziale: nella sua visione l’eguaglianza di genere non aveva colore e il suo impegno per i diritti delle donne si affiancò sempre alla battaglia contro razzismi e discriminazioni.

All’esperienza di first lady della nazione seguì la nomina di rappresentante degli Stati Uniti nella neonata organizzazione delle Nazioni Unite, voluta dal nuovo presidente Harry Truman, che ne premiò l’impegno che condusse alla stesura e all’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani attribuendole l’appellativo di First Lady of the World. Il cerchio si chiudeva, con un documento di rilevanza mondiale che coniugava parità di diritti, pace e democrazia.