Così inizia Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte di Carl Marx: «Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa», e Friedrich Engels nella lettera a Marx che aveva ispirato la sua citazione, sottolineava «una farsa pidocchiosa».

Non ci sarà la «farsa pidocchiosa» di una nuova guerra austro-ungarica, l’invio di carri armati e soldati alla frontiera annunciati dal ministro della difesa austriaco. È evaporata al sole dell’estate la manovra elettorale di Vienna intesa a cavalcare, come in ogni capitale europea, la xenofobia che si vuole dilagante.

Il traballante premier austriaco Christian Kern, ha fatto marcia indietro, visto anche il fatto che dal Brennero purtroppo di migranti ne passano ormai sempre meno.

Le truppe austro-ungariche non metteranno a repentaglio i nostri confini. Diciamo austro-ungariche perché da almeno due anni Vienna è diventata capofila neo-imperiale dei «Quattro di Visegrad», Slovacchia, Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, il fronte dei più refrattari contro i profughi e allo stesso tempo i Paesi europei che rimettono in discussione, non solo sui migranti, i legami con l’Ue cancellando diritti e principi democratici, contro le opposizioni e ogni minoranza.

Ma la marcia indietro non riesce a nascondere il disastro di quella che ci ostiniamo a chiamare Unione europea, naufraga e profuga di se stessa rispetto alle promesse con cui si è costituita. Perché ecco che s’avanza un’altra «farsa pidocchiosa», ben più pericolosa.

Quella neo-coloniale, ma presentata come svolta salvifica dal governo italiano e dal ministro Minniti: è l’«aiutiamoli a casa loro in Africa », già parola d’ordine delle destre razziste, ora programma di Bruxelles formalizzato nel «Piano Merkel», in discussione al vertice europeo che si è aperto ieri a Tallinn in Estonia, dove la proposta di regionalizzare gli approdi dei migranti viene respinta da Francia, Spagna e ora anche dalla Germania.

Il «Piano Merkel» vuol dire aiuti, sostegno vero, soccorso e riparazioni alle malefatte della nostra economia di rapina? No, stesso ed eguale coinvolgimento degli organismi finanziari internazionali che elargiscono fondi al Continente africano solo in cambio di ulteriori cessioni di sovranità (una sovranità che non c’è quasi mai stata), di privatizzazioni, di rinnovate concessioni alle multinazionali, di commerci di nuove sofisticate armi ad inasprire altri conflitti – come scriveva ieri sul manifesto Giulia Franchi di Re:Common – e a gravare i già smunti bilanci delle nazioni africane, proprio lì da dove fuggono i cosiddetti «migranti economici». Sarebbe stato sbagliato chiamare questo programma «piano Marshall».

Quello fu davvero il primo piano – strumentale durante la Guerra fredda – d’investimenti americani in Italia e in Europa. Ma in Africa i nostri investimenti di rapina ci sono già e aiutarli a casa loro dovrebbe voler dire cambiarne natura, mezzi e scopo. Ora Minniti lamenta il fatto che alla Turchia per tenerci i profughi in campi di concentramento, abbiamo dato due miliardi, «invece alla Libia le briciole».

Ma prima della guerra della Nato del 2011, la Libia era il principale Paese investitore in infrastrutture e opere civili dell’intera Africa e con il reddito più elevato del Continente nero, inoltre poneva all’ordine del giorno il problema del cambio denaro-materie prime non più solo in dollari ma in euro, con addirittura la possibilità che nascesse una divisa africana.

Ora che cos’è diventata la Libia? E soprattutto, a quale brandello della lacerata Libia dovremmo dare miliardi come per la Turchia del Sultano Erdogan? A Sarraj che conta meno del sindaco di Tripoli o a Khalifa Haftar sul trono a Bengasi all’ombra di Al-Sisi e Francia, alle milizie di Misurata o alle guardie petrolifere, o al figlio di Gheddafi, Seif al Islam?

Intanto continuiamo a pompare-rapinare per noi petrolio e gas dai preziosi pozzi libici. Intanto la frontiera dell’Europa «deve diventare il Niger», più a sud della Libia, «lì e prima dobbiamo fermarli», in Mali (dove la guerra continua) e in Ciad. Nessuno spiega come per 5mila chilometri di frontiera che delimita il sud del Sahara. Ma questa è la «nuova» idea.

E la Francia, che con il Bonaparte-Macron rompe la solidarietà con l’Italia e dice «no ai migranti economici», con questa «solidarietà» non a caso è d’accordo. Parigi ha semplicemente in mano le economie dell’area, detiene praticamente le chiavi delle banche centrali di questi Paesi e l’intera loro economia, controlla le ricchissime fonti minerarie.

Che c’è da aggiungere? Magari un prezioso commercio di armi (finché c’è guerra!), il rafforzamento delle già corrotte leadership e in più la disponibilità dei Paesi africani diventati il «nuovo confine europeo» a farsi «campo di concentramento» per chi fugge da guerre e da miseria. Non opere riparatrici e di bonifica dello sfruttamento, occidentale e dei Paesi sviluppati, delle risorse africane.

Guardate come le multinazionali occidentali del petrolio hanno ridotto il Delta del Niger, grande quasi un quarto dell’Italia: un pantano immenso di bitume e scarti del grezzo di prima estrazione che ha compromesso le falde acquifere costringendo alla fuga centinaia di migliaia di contadini nigeriani: e la Nigeria risulta non a caso al primo posto tra i paesi di provenienza dei profughi africani. Invece offriamo un altro scambio ineguale, un «piano» per allargare l’universo concentrazionario di un intero continente, nel disprezzo di quelli che vantiamo, ma solo per noi, come i beni più preziosi: i diritti umani e la democrazia.