Chi mai tra amministratori, governanti, cittadini, avrebbe oggi il coraggio di dichiararsi pubblicamente a favore di un ulteriore consumo di suolo in Italia? Probabilmente quasi nessuno (costruttori compresi; più per vergogna che non per convinzione e interessi). Eppure ancora oggi è difficile separare il concetto di sviluppo da quello di crescita urbana, Grandi Opere, Grandi Eventi: sembrano le due facce di una stessa medaglia (A Milano Expò, a Roma prossime olimpiadi e nuovo stadio). È stato detto da molti, il terribile terremoto di Amatrice è una ennesima dimostrazione di come lo svuotamento delle aree interne a favore dei terreni pianeggianti delle coste rende queste zone appenniniche ancora più vulnerabili e fragili; aree di abbandono, dove, al più, celebrare qualche sagra paesana in alcuni giorni dell’anno: il futuro è quello delle grandi città, ovvero delle sue periferie sempre più estese, indistinte, anonime. È il mantra dello sviluppo, della modernità, ed è così che, cacciato dalla porta, il consumo di suolo, riesce sempre a rientrare dalla finestra, nonostante le dichiarazioni pubbliche.

Paola Bonora, docente di geografia all’università di Bologna, da sempre impegnata a difesa delle ragioni dei territori e delle comunità insediate (con P. L. Cervellati ha scritto Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista, Diabasis), prova a dimostrare, con un libro agile e snello dal titolo Fermiamo il consumo di suolo. Il territorio tra speculazione, incuria e degrado (Il Mulino, pp. 133, euro 12) che non solo vale la pena di continuare a difendere questa causa, ma che è addirittura vantaggioso limitare questo consumo.

Il libro, già dalle prime pagine, è una denuncia contro la retorica oggi di moda: «Mentre infatti si propugna il consumo zero, dall’altra si varano provvedimenti che vanno in direzione opposta come è il caso del decreto legge cosiddetto Sblocca Italia, che sposta l’offensiva del cemento e dell’asfalto sul piano delle grandi opere varando misure urgenti per la riapertura dei cantieri». La questione è ben nota: «In Italia vengono consumati otto mq. di suolo al secondo: un rettangolo di due metri per quattro ad ogni respiro. Un accumulo che non conosce pause: in media sono stati consumati più di sette mq. al secondo per oltre 50 anni».
Fin qui altri libri e ricerche (quella di Michele Munafò, tra tutte, responsabile del Rapporto Ispra 2016 di cui si può leggere sulle pagine di questo giornale del 13 luglio), hanno già ampiamente documentato il saccheggio e la devastazione di tale risorsa. Meno scontate sono le implicazioni ecologiche, sistemiche, sociali e culturali conseguenti al consumo di suolo che invece formano il cuore del libro. Dobbiamo a Bonora il compito di distinguere tra suolo e territorio sulla scia della Scuola Territorialista di Alberto Magnaghi.

Suolo, infatti, allude ingegneristicamente a una semplice risorsa fisica (seppure non rinnovabile e indispensabile alla riproduzione dei sistemi ecologici), mentre il territorio «è elemento costitutivo delle comunità, agente vivo del processo di civilizzazione e delle sue dialettiche, spazio pubblico e bene comune per eccellenza, come i suoi attributi di qualità, funzionalità, bellezza». Dopo la modernizzazione fordista (che pure ancora manteneva spazi pubblici e paesaggi), la deregulation neoliberista rispecchia «la crisi dell’idea di comunità, della mancanza di baricentri, di spazi in cui vivere il quotidiano». L’immagine postfordista è quella di una città frammentata, priva di orientamento, senza più forma e senza più vita in comune, prodotto di esistenze in transito. Anche l’agricoltura è tirata in causa, come vittima e carnefice di se stessa. Il processo di urbanizzazione delle aree agricole «porta con sé appiattimento, omologazione, perdita di biodiversità, altera cicli ecologici, confina l’agricoltura in aree interstiziali».

Al tempo stesso l’eccesso di monocolture, la meccanicizzazione spinta e l’uso di prodotti chimici completa la distruzione del patrimonio agricolo e mette a repentaglio la sicurezza alimentare. Il processo di cementificazione tanto meno risparmia il paesaggio considerato «una risorsa identitaria poiché raccoglie e condensa le memorie delle generazioni trascorse, la dialettica delle relazioni sociali, i valori culturali che le ispirano». Paola Bonora preferisce non trarre conclusioni («le conclusioni sono sempre la parte più noiosa e pleonastica di un libro»), piuttosto aggiunge una riflessione amara a quanto già detto da molti: «Che le persone non si radunino nelle piazze accade non solo perché ammaliate dai social network o dai centri commerciali, ma anche perché le piazze, le strade e i luoghi in cui può avvenire l’incontro sono diventati paesaggi stranianti, spazi ostili, corridoi di transito popolati da consumatori frenetici».