Dopo l’89 e la fine dell’Unione Sovietica il mercato capitalista è diventato globale. Da allora, pur attraverso molteplici crisi, tale globalità si è mantenuta – anzi, rafforzata. Si sono tuttavia potuti osservare altri fenomeni: la relativa crisi dell’egemonia Usa e soprattutto una nuova, sempre più evidente, progressiva costituzione e/o modificazione delle linee che definiscono gli spazi del tessuto globale. Lasciando alla geopolitica la discussione sul declino (o meno) della potenza nord-americana e sulla distribuzione ormai continentale della sovranità imperiale, concentriamoci sul nuovo dinamismo delle frontiere – non tanto di quelle esterne quanto di quelle interne, dei flussi migratori, degli esodi e della ricollocazione delle industrie manifatturiere, del riqualificarsi universale dei servizi logistici e finanziari… il «liscio» del paradigma globale ci si presenta ora piuttosto come un dislocarsi continuo di differenze e/o di diverse figure di organizzazione, di flussi e/o di potenze variabili di intensità, e la totalità si offre come insieme eterogeneo di movimenti spaziali e/o di rimodellate insistenze gerarchiche.

Composizioni in debolezza

L’orizzonte dei «mille piani» da astratto si è fatto reale. E dove non c’è più «fuori», il «dentro» produce diversità sempre più rilevanti; dove il concavo è dato, il convesso si stabilisce non come contrario ma come fluttuante alternativa. Marx aveva ben descritto la tendenza (e l’interiore dispositivo) che spingeva verso la costituzione del mercato mondiale ma non aveva esplicitato come nello sviluppo della tendenza dovessero ricomparire diverse funzioni di dominio, insistenti sulla continua mutazione e sulla singolarità spaziale delle forme dello sfruttamento, dei dispositivi e delle tensioni gerarchiche – anch’esse variabili – del comando.

La divisione internazionale del lavoro risulta implementata da una nuova strutturazione spaziale: come ciò avvenga, Marx non lo dice – tuttavia egli ci ha fornito un punto di vista dinamico, il movimento del lavoro vivo, dal quale guardare questa mutevole realtà (e a partire dal quale integrare la sua opera). C’è un grande lavoro da fare. Tanto più importante quando, dal punto di vista di un’analisi geopolitica di quella lotta di classe che ormai si svolge a livello globale, si avverta quanto siano usati e insufficienti metodi analitici altre volte efficaci, come ad esempio la possibilità di stringere dentro una chiave analogica (in termini di isoformia) strutture economiche e politiche, di poter fare della composizione tecnica del capitale e della forza lavoro la base di comprensione della composizione politica delle classi.

Quelle logiche oggi spesso si scontrano e funzionano indipendentemente l’una dall’altra sicché dal loro confronto spesso deriva caos – oppure, come usano i reazionari, risultano ricomposizioni «deboli», estremamente variegate ed instabili.

Non c’è modo di affrontare realisticamente il problema se non immergendosi in questa nuova realtà e tentando di scomporla e ricostruirla genealogicamente. Lo fanno Brett Neilson e Sandro Mezzadra. Il libro di cui parliamo Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (Il Mulino, Bologna, 2014), era già stato pubblicato negli Usa con il titolo Border As Method (peccato, per l’accademica e banale modificazione del titolo da parte dell’editore italiano!). «Le molteplici componenti del concetto e dell’istituzione del confine (giuridiche e culturali, sociali ed economiche) tendono a staccarsi dalla linea magnetica corrispondente alla linea geopolitica di separazione tra Stati-nazione. Per afferrare questo processo prendiamo le distanze dall’interesse prevalente per i confini geopolitici che caratterizza molti approcci critici, parlando non solo di una proliferazione ma anche di una eterogeneizzazione dei confini»: tali il presupposto e l’approccio.

Questo significa che Mezzadra e Neilson assumono il confine in maniera del tutto nuovo (foucaltiana?) come punto di vista epistemologico, e si mettono sul confine per guardare, per costruire concetti adeguati ai flussi che sempre nuovamente costruiscono o contraddicono il dato, per condividere le passioni dei corpi che, attorno ai confini, lottano, oltrepassandoli o rimanendone vittime – in ogni caso esprimendo su questo terreno nuove risposte alle nuove figure del dominio – risposte sempre eterogenee quanto lo divengono gli attori che qui si propongono, ma sempre potenti quando si conceda alla riuscita dell’attraversamento della frontiera la dignità ontologica della produzione di soggettività.

Assumiamolo dunque anche noi questo punto di vista e poniamoci su quel luogo privilegiato di lettura e di partecipazione, di differenza e di antagonismo, ai processi di globalizzazione. «Confini proliferanti» – il punto centrale, la macchina che smuove e ricompone i confini è la lotta di classe; e il realizzarsi del desiderio nomadico, l’esercizio del «diritto di fuga» che si presentano dinamicamente come pressione sui confini geopolitici esistenti e si rivelano ontologicamente come movimento irresistibile. «Il nostro obiettivo – dicono gli autori – è quello di tenere insieme una prospettiva sul confine segnata dall’attenzione per la forza-lavoro, con il nostro interesse per le lotte di confine e la produzione di soggettività. L’analisi si concentra così sulle tensioni e i conflitti attraverso cui i confini plasmano le vite e le esperienze dei soggetti che, per il funzionamento del confine stesso, sono configurati come “portatori” di forza-lavoro. La produzione della soggettività di questi soggetti costituisce un momento essenziale del più generale processo di produzione della forza-lavoro come merce».
Di qui il discorso sulla «proliferazione delle frontiere», divenuto motore di riconfigurazione della forza-lavoro, si sposta decisamente sulla definizione delle forme specifiche nelle quali il lavoro-vivo si moltiplica. È una vera e propria apologia del lavoro-vivo quella che qui si apre.

Il concetto di «moltiplicazione del lavoro» segue quella fenomenologia contemporanea che descrive, nella intellettualizzazione, nella immaterializzazione ed informatizzazione del lavoro, il nuovo configurarsi e differenziarsi di capacità produttive. La trattazione di questo punto non è noiosamente ripetitiva: rende conto del fatto che queste qualificazioni astratte (e talora – come l’immateriale – bizzarre) della forza-lavoro si ricompongono nella concretezza del processo lavorativo e nell’evidenza della materialità della merce. E tuttavia insiste sul fatto che qui ormai è la cooperazione lavorativa, il momento centrale che presiede ad ogni moltiplicazione. «Cooperazione–comune»: è il presupposto dell’agire produttivo e se esso non si può riconoscere che al termine del processo, ciò nondimeno è la cooperazione che tiene aperti piani molteplici ed irreversibili di produzione di soggettività. Con ciò la trasformazione dei confini ha successo.

Assetti mobili

«Produzione di soggettività» sarà allora il tracciato che si stende fra la lotta attorno ai confini e il prodursi di una nuova potenza lavorativa – si pone dunque, questa produzione, sul margine tra capacità capitalista di captare economicamente il valore (plus-valore) delle nuove forme di cooperazione del lavoro produttivo e di governarle – e, d’altra parte, la capacità del lavoro vivo di produrre cooperazione, di riappropriarsi autonomamente di questa e di resistere alla pressione di nuovi assetti di cattura, funzionali e gerarchici.

L’analisi si sviluppa allora inseguendo il trasformarsi delle teorie della divisione internazionale del lavoro a fronte della trasformazione dei soggetti sul mercato mondiale; insistendo sui processi costitutivi di quella fabrica mundi che viene in questo contesto così costruendosi; mettendo a confronto l’eterogeneità della composizione del lavoro-vivo che si esprime in nuove figure produttive (come esempio particolarmente rilevante su questo terreno, l’analisi è portata sulle lavoratrici di cura e sui traders finanziari) con le dimensioni «comuni» del produrre ora riconquistate dal lavoro-vivo.

L’analisi si sposta conseguentemente sui meccanismi di governo della mobilità del lavoro-vivo e studia come forme più o meno disciplinari di filtraggio e di gerarchia vengano costruendosi. Particolare importanza è attribuita al concetto di «inclusione differenziale» tipica della «macchina sovrana della governamentalità» – concetto adeguato per cogliere gli emergenti assemblaggi di potere nell’era globale, più di quanto possano esserlo l’idea di un «governo sovrano» (più o meno «eccezionale») o quello di una governance, troppo indeterminata. È a questo punto che, con particolare forza, viene costruito un progetto di ricomposizione, meglio, ricercato il dispositivo di un lavoro-vivo ricomposto nel comune. Il concetto di «traduzione», interpretato non solo in maniera linguistica ma essenzialmente ontologica, viene recuperato per cogliere e narrare le ricomposizioni «comuni» della forza-lavoro – la possibilità di una figura politica che emerga dentro questa nuova struttura della lotta di classe.

Un libro difficile? Forse. Difficile – diremmo – come lo erano per i contemporanei i libri di Max Weber. Straordinarie somiglianze appaiono qui fra questo Border as Method e Wirtschaft und Gesellschaft – o ancor più con i weberiani scritti sociologici di ricerca di campo. Ma straordinaria è anche la differenza. Questo di Neilson e Mezzadra è un manuale per una nuova visione globale. È solo studiando libri di questo genere che ci si rende conto di quale distanza si dia ormai tra le concezioni del «moderno» elaborate dal pensiero della borghesia più avanzata – nell’epoca che sta attorno al ’17, momento nel quale la sua egemonia era definitivamente contrastata dalla rivoluzione imminente – e un nuovo punto di vista, nel «post-moderno», da parte di studiosi che si schierano sul lato della sovversione. È infatti solo il compito sovversivo che permette di porre la conoscenza del presente dentro quella rottura che stacca dal «moderno» l’attuale fenomenologia del lavoro e del potere.

Strategie comuni

Insomma, questo è un libro insieme freddo e generoso, scientifico e innovativo, fuori dalla ripetizione accaldata e dalla stitichezza del pensiero accademico; questo libro ha l’impressionante vivacità di un «classico», in quel suo procedere da esperienze dirette, non già classificate, per portarle al livello di «concetti comuni» – ed infine esso è un libro essenzialmente politico, come lo sono sempre anche i «classici» più neutrali. Ci sono pagine dedicate alla «traduzione» ed alla costruzione di «concetti comuni» – c’è lo sforzo di stabilire dispositivi che superino la separazione fra lingue, culture e soggettività e creino la possibilità di politiche radicali – vi son pagine, nell’ultima parte del volume, che danno la misura di quanto una nuova generazione di studiosi si sia oggi avvicinata ad un lavoro teorico di innovazione nella conoscenza della e collocazione nella globalità – e di ridefinizione di una politica sovversiva.

Alla fine, che cosa significa questo? Quali indicazioni di lotta ci dà? Mezzadra e Neilson affermano innanzitutto che il terreno globale non si presenta come un’«eterotopia», che esso dunque non potrà e non dovrà essere investito da un «esodo». Trovandosi a fronte di questa trasformazione, anche in tempi recenti, taluni hanno infatti dubitato – Neilson e Mezzadra ci tolgono dal dubbio.

Il terreno globale è fin da ora sempre un terreno percorso da lotte, un terreno nel quale l’utopia si è incarnata. Noi siamo «lì» ed ora: non «qui» ed ora, ma appunto «lì», illic piuttosto che hic il che significa che la presenza è una tensione e un dispositivo, che la sovversione è aperta. Ringraziamo il marxismo critico di averci ancora una volta dato questa possibilità di andare oltre la consistenza del dominio, di aver costruito gli acidi utili alla dissolvenza della weberiana «gabbia d’acciaio».