Come si fa a mettere in mostra ciò che è dovunque? Ovidio is everywhere, così il latinista inglese Charles Martindale iniziava il suo volume Ovid Renewed (1988) per descrivere la fortuna che il poeta delle Metamorfosi si è meritata nelle arti. A duemila anni dalla morte del poeta latino, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli ci prova «dedicandogli» fino al prossimo 16 ottobre la mostra Amori divini, curata dalle archeologhe Anna Anguissola e Carmela Capaldi con Luigi Gallo e Valeria Sampaolo (catalogo Electa). L’allestimento, dominato dal colore antracite e da una sequenza di «Stargate» che mettono in comunicazione le dieci sale, fa risaltare le opere esposte, ma ancora di più gli splendidi pavimenti antichi in marmi colorati, portati alla luce in vari siti della Campania e reimpiegati nel Museo nei primi decenni dell’Ottocento. Uno spiraglio alla luce estiva del sole napoletano probabilmente poteva essere concesso: la luce naturale in altre sale del museo, per quanto filtrata da inevitabili tende, riesce infatti a creare effetti delicati e suggestivi sulle opere esposte.
Le forme e i modi dell’attrazione e della seduzione tra uomini e divinità, descritti dai racconti mitici, sono il filo rosso che accompagna il visitatore nella lettura di circa ottanta opere d’arte antica e moderna, prestate tra l’altro dall’Hermitage di San Pietroburgo, dal Paul Getty Museum di Malibu e dai Musei Vaticani . Tutto gira inoltre attorno al tema della trasformazione e del mutamento, che già i filosofi greci avevano riconosciuto come l’unica legge capace di garantire la perpetua continuità dell’universo. Le Metamorfosi sono il riferimento centrale della mostra – il dipinto Il trionfo di Ovidio di Nicolas Poussin accoglie il visitatore – ma per meglio comprenderne il significato e gli sviluppi nella cultura occidentale, l’indagine dei curatori parte da un vasto campionario di vasi attici a figure rosse e italioti, databili tra il V e il III secolo a.C., che danno consistenza alla prima sezione del percorso espositivo («La materia del mito»). Danae, Callisto, Io, Atteone, Leda, Europa, Ganimede, nei tratti precisi ed essenziali della ceramica attica o in quelli esuberanti del ceramografo pestano Assteas, prendono così forma secondo le costruzioni iconografiche della mentalità greca.
I miti di Danae, Leda, Europa e Ganimede, letti attraverso il filtro dall’elaborazione ovidiana, sono illustrati nella seconda sezione, «Il dio muta forma». Alla coerente documentazione archeologica databile dal I secolo a.C. al III d.C., costituita principalmente da affreschi strappati da domus di Pompei e Stabia e da reperti della collezione Farnese, sono associati piccoli bronzi rinascimentali, eco della profonda riscoperta moderna di Ovidio, e la tela con una sensuale Danae di Andrea Schiavone, che fa venire voglia di una scappata al vicino Museo nazionale di Capodimonte per confrontarla con quella di Tiziano Vecellio che l’ha ispirata. Il ratto di Europa nelle versioni pittoriche del fiammingo Cornelius Shut e di Guido Cagnacci sono invece l’unica testimonianza delle drammatiche interpretazioni barocche delle Metamorfosi. A pochi centimetri dal pavimento è collocato il gesso neoclassico opera di Bertel Thorvaldsen raffigurante Ganimede che abbevera l’aquila in una equilibrata ed elegante composizione neoclassica.
La terza parte è dedicata a Ermafrodito, il figlio di Ermes e Afrodite, che avendo rifiutato l’amore della ninfa Salmacide fu per questo a lei indissolubilmente unito. Il rapporto tra aspetto fisico e interiorità, tra «Corpo e spirito», titolo della terza parte della mostra, è presentato attraverso sculture e affreschi dall’area vesuviana, dalle tele di Bartholomäus Spranger e Francesco Albani e da una piccola copia in bronzo dell’Ermafrodito Borghese. Il gruppo scultoreo dalla villa cosiddetta «di Poppea» a Oplonti con Ermafrodito assalito da un Satiro è l’opera più rappresentativa della sezione, capace di catapultarci nel vortice percettivo delle immagini antiche.
I mutamenti di Callisto, Io, Atteone, le vicende delle coppie Apollo e Dafne ed Eco e Narciso sono presentati nella quarta sezione della mostra («Il dio trasforma»). Anche qui le immagini presenti sugli affreschi di età romana sono messe in relazione secondo il metodo warburghiano con quelli presenti su rilievi e i dipinti realizzati tra la metà del Cinquecento circa e la fine del Settecento.
L’esposizione, che nasce come percorso di approfondimento delle tematiche accennate nella mostra Pompei e i Greci, ospitata nella Palestra Grande di Pompei fino al 27 novembre, è un caleidoscopio di immagini selezionatissime prodotte in Occidente nel corso di più di duemila anni, incomprensibili nel loro significato più profondo senza la conoscenza dei racconti mitici elaborati in Grecia e a Roma. Se l’opera di Ovidio non si fosse conservata – e non è un caso che si sia conservata – non saremmo in grado di leggere nessuna delle opere in mostra, di comprenderne il senso più profondo. La mostra avrà così colpito nel segno se il visitatore alla fine del percorso sentirà la necessità di ritornare ai testi letterari per abbandonarsi alla potenza delle parole che sanno trasformarsi in immagini e sono ancora capaci di alimentare la fantasia non solo di Picasso, Richard Strauss, Fellini, Louis Scutenaire e Cy Twombly, ma anche quella di ciascuno di noi.