Il filosofo, sostiene Merleau-Ponty, per comprendere il mondo, per poterlo pensare, deve essere contemporaneamente dentro e fuori di esso. Lo si può dire, probabilmente, per qualunque impresa si ponga l’obiettivo di rendere in qualche modo ragione della realtà.

Per poter descrivere e comprendere una qualche porzione di essere, bisogna conoscerne gli interstizi, averne attraversato le pieghe più nascoste e, al tempo stesso, guardarlo da un punto liminare che nel consueto riveli l’insolito, nell’abituale sveli aspetti di stranezza, e all’occorrenza sciolga l’ordinario nell’insensato o nel ridicolo.

È più o meno questa la posizione dalla quale Vitaliano Trevisan scrive il suo imponente e strepitoso mémoire titolato Works (Einaudi «Stile Libero Big», pp. 664, euro 22,00), in cui racconta la sue esperienze lavorative prima di diventare uno scrittore.

Per ottenere il suo scopo, Trevisan crea una sorta di gioco di specchi, in cui quella che chiama la sua prima vita – segnata dal passaggio da un lavoro a un altro, da un’occupazione a un’altra – si riflette nella sua seconda stagione e la alimenta come ne fosse l’origine, mentre a sua volta la seconda vita – quella successiva alla pubblicazione di Quindicimila passi (Einaudi, 2002) e alla sceneggiatura con Matteo Garrone di Primo amore nel 2004, o alla messa in scena di suoi testi da parte di Toni Servillo nel Lavoro rende liberi – appare come una sorta di esito in grado di rendere in qualche modo sopportabile il caos, la frantumazione esistenziale e la disperazione senza uscita della prima.

Attraverso questo racconto meticoloso, puntuale nella rievocazione dei luoghi, preciso nella restituzione dei tempi, minuzioso nel riepilogare le condizioni psicologiche all’interno delle quali si muoveva (e si muove) il protagonista (ovvero l’autore stesso), viene descritto – in effetti – un mondo. Meglio: descrivendo un mondo, l’autore ne descrive molti altri e ce li restituisce come porzioni di realtà concentriche che si sono infettate l’una con l’altra, essendo l’una dipendente dalle altre. Contesti che rimandano in generale al lavoro dipendente (dove la dipendenza non è solo da qualcuno, ma più radicalmente dal lavoro stesso), nel Nord-Est dell’Italia (essenzialmente Vicenza e la sua periferia diffusa), nel territorio veneto dilaniato, dove stanno le marginalità dei disadattati (intesi come esseri antropologicamente incapaci di adattarsi al loro mondo-ambiente); e, soprattutto, il racconto rimanda alla dimensione esistenziale di soggetti che al tempo stesso sono interni a questo mondo ma non riescono ad accettarlo e a farlo proprio.

Senza alcuna retorica ideologica, Trevisan racconta, analizza e anatomizza questo corpo complesso, la sua psicologia, le sue patologie.

E al di là di qualsiasi astrazione e di qualsiasi pretesa universalistica ricostruisce un modello che è insieme sociale – una varietà di tipi antropologici – e figura esistenziale. Il territorio, il paesaggio – ovvero le zone industriali cosparse di capannoni, di case-azienda, di locali per la lap dance o di alberghi frequentati da commercianti di pellami, di oggetti da oreficeria nonché da coppie «clandestine» che vivono lì, in quegli alberghi, una loro vita di riserva altrettanto ordinaria e borghese dell’altra da cui fuggono – costituiscono una sorta di ritratto che coinvolge tutti, tanto chi cerca di scappare da quella sintassi quotidiana, quanto chi vi si muove come un pesce nell’acqua.

Questo mettersi allo stesso tempo dentro e fuori rispetto al mondo raccontato non è tuttavia, nel caso di Trevisan, un esperimento di laboratorio, assimilabile – per esempio – al lavoro di quegli attori, e talvolta anche di quegli scrittori, che si immergono in qualche mondo esperienziale loro estraneo badando a apparire autentici nel restituirlo.

All’artificiosa scientificità dell’esperimento Works contrappone – per quanto l’operazione sia necessariamente problematica e pericolosa – la vita di un individuo, l’autore stesso, la sua esperienza concreta di atomo di questo sistema che si muove certo in attesa di una qualche possibile salvezza, ma è allo stesso tempo consapevole della possibilità che gli venga negata una qualsiasi, anche minima, redenzione.

Works è una sorta di diario esistenziale realizzato nella forma di un viaggio dentro l’idea stessa del lavoro e in particolare del lavoro in quella terra, il Nord Est (già nome preveggente di una discoteca della periferia di Vicenza) che identifica l’esistenza stessa con il lavoro. Il lavoro sembra infatti, a chi si muove lungo quelle latitudini, come la dimensione (non una dimensione, ma la dimensione) attorno alla quale si costruisce qualsiasi ipotesi di senso.

Il lavoro, come dice Trevisan, è la vera religione del Nord Est, è il pilastro che regge tutti i meccanismi apparentemente naturali dentro cui l’esistenza degli umani si trova proiettata.

Parliamo di esistenze che si ritrovano a consumare i giorni lavorativi in attesa del fine settimana, della possibilità di liberarsi dalla dipendenza del lavoro e che poi, nel vuoto originato dalla sospensione di ciò che dà senso alla vita, sperimentano il risucchio dentro un vorticoso e desertico nulla, che può rivelarsi letale.

Nessuna ideologia, dunque. E nessuna retorica che rinvii alla figura del lavoratore/eroe, alla vittima, alla figura dello sfruttato. E nemmeno odio o disprezzo del lavoro. Rifiuto, semmai, dell’idea del lavoro come realizzazione del sé, come luogo di redenzione ed elevazione degli individui: splendide, da questo punto di vista, le pagine sulle cooperative sociali dedicate all’inserimento degli handicappati o al recupero di ex tossicodipendenti, dove l’intruglio di etica del lavoro e moralismo catto-comunista sembra sospendere qualsiasi giudizio elementare.

La forma di descrizione adottata da Trevisan è quella del disegno di dettaglio (il disegno tecnico in cui, quando era un ex geometra, eccelleva), nel quale si cerca una accuratezza scientifica, e con essa un’immagine, che riesca a rendere presente e vivida l’esperienza.

La sensazione è che per l’autore la precisione, in questo testo ancora più che altrove, sia una necessità intima, un bisogno che si potrebbe indovinare etico. Lo scrittore vuole condurre il lettore – attraverso la cura del dettaglio, l’attenzione minuziosa, l’onestà dello sguardo – alla verità della cosa, alla verità di un’esperienza, alla verità di una vita. Poiché coincide con il protagonista di quanto viene descritto, lo scrittore non può permettersi ambiguità semantiche, ammiccamenti lirici; non può concedersi giochi di prestigio linguistici e sintattici, né indugiare su narrativi effetti speciali.

La necessità primaria è quella di far sentire al lettore che non c’è menzogna, che non si sta barando, che un atteggiamento distante dal modo controllato e consapevole del rigore descrittivo si risolverebbe giocoforza in una costruzione artificiosa, in una cesura nel rapporto tra scrittura e verità. Ciò che è in campo non è l’adeguatezza mimetica della scrittura al reale, ma il suo corrispondere a se stessa sintonizzandosi con il ritmo del racconto che essa stessa istituisce, adeguando la sua stessa forma al mondo che indaga, all’occhio che scruta, al gesto che svela.

Si direbbe che Trevisan concepisca la scrittura come fosse un gesto pittorico che finalizza il dettaglio alla restituzione di una totalità, e del suo senso più remoto. In questa prospettiva, i trentuno «quadri» di cui si compone Works – ognuno dei quali rievoca una peculiare esperienza lavorativa, un determinato periodo nella vita dell’autore segnato da una specifica occupazione, dalla sua ricerca o da pratiche come il piccolo spaccio – compongono un ciclo nel quale la vita nel lavoro diventa il cuneo che consente di svelare la specificità di una esistenza e con essa di un’epoca e di un mondo: il destino dell’autore non prevede che se ne separi, e tuttavia egli non ne è mai davvero parte.