«La Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta». Le parole con le quali Borges descrive la Biblioteca di Babele potrebbero ben sintetizzare il progetto tenacemente perseguito da Aby Warburg, la sua razionale ossessione di una Biblioteca che «doveva rispondere, nell’organizzazione del materiale, al criterio del ’buon vicinato’, e questo sempre nell’ottica dell’ineludibile connessione tra le diverse forme di cultura che stava alla base delle sue convinzioni teoriche». Così scrive Giancarlo Magnano San Lio nel suo Ninfe ed ellissi. Frammenti di storia della cultura tra Dilthey, Usener, Warburg e Cassirer (Liguori, pp. 244, euro 24,99).

Il muoversi esistenziale di Warburg tra malattia e salute è stato anche il riflesso biografico di una posizione teoretica di fondo, per la quale i confini istituiti tra le scienze, le arti, i saperi, sono confini a volte funzionali e però mai costituitivi della vicenda umana nel tempo. La quale è, invece, fatta di una continua tensione, non conflittuale e insieme mai univoca, «tra razionalità ed irrazionalità, tra logica e magia, tra sano e patologico, dove ad essere decisamente rifiutati erano tanto i metodi ermeneutici in qualunque modo esclusivi e dicotomici quanto ogni improbabile, assoluta preminenza dell’uno o dell’altro aspetto».

Attento ai significati universali e antropologici dell’arte, Warburg ne respinse sempre la riduzione alla semplice estetica e cercò invece di fare dell’arte e della sua storia una strumento di raccordo dei saperi, delle civiltà, delle culture sparse nel tempo e nello spazio: «Ordine e disordine, allo stesso modo di scienza e magia, di razionalità e caos, di conscio e inconscio, hanno sempre rappresentato le polarità costitutive lungo le quali si è articolato il percorso di Warburg e che ne hanno in qualche modo determinato uno dei tratti più originali e significativi; si capisce, quindi, perché egli abbia rifiutato l’idea di una storia dell’arte concepita in modo meramente estetizzante, per rifonderla, invece, nell’ambito della più complessa dinamica della storia culturale e, in definitiva, della vita stessa».

La storia dell’Europa è una dinamica senza fine tra le opposte polarità che Nietzsche – dal quale Warburg fu certamente influenzato – ha definito con i termini di apollineo e dionisiaco. Ma lo sguardo si allarga oltre il nostro continente e coglie nel rapporto tra le culture europee ed extraeuropee non una relazione gerarchica ma una dinamica di identità e differenza. Dinamica che Warburg assimila anche da Usener, il filologo classico che nella seconda metà dell’Ottocento aveva suscitato scandalo tra i suoi colleghi benpensanti.

Usener affermava infatti che la filologia dovesse andare ben oltre la «rigorosa analisi del dato particolare» e giungere invece «ad una più vasta comprensione del mondo storico-spirituale, così da sottrarla ad ogni limitazione derivante dal semplice riferimento, per così dire, tecnico-operativo alla ricognizione letterale di testi scritti»; a questa convinzione si aggiungeva una visione dell’umanità come una struttura in continua «connessione dinamica entro la quale, soltanto, ha più senso leggere i singoli tratti (…), il che significa, in altri termini, che non esiste alcun individuo o popolo che possa essere considerato nel suo assai improbabile isolamento».

Seguendo l’insegnamento di Usener, anche Warburg era dunque convinto della necessità di «muovere ad una comparazione tra le più diverse forme di cultura scardinando gli steccati disciplinari tradizionali e procedendo per via comparativa all’interno di un ambito spazio-temporale e tematico assai più ampio rispetto a quello tradizionalmente indagato».

Le «forme simboliche» studiate da Cassirer – amico di Warburg – costituiscono anch’esse un modo di attuare questo programma di liberazione del sapere da ogni confine disciplinare troppo rigido, da ogni pregiudiziale primato di un ambito sull’altro, da ogni gerarchia etnologica tra le diverse terre in cui gli umani hanno vissuto e vivono.

L’importanza di questo denso libro di Giancarlo Magnano San Lio sta anche nell’aver identificato in Dilthey l’elemento che accomuna Usener, Cassirer e Warburg. Il pensiero di Dilthey è infatti rivolto all’’uomo intero’», a quella «condizione universale all’interno della quale, soltanto, le singole determinazioni assumono valenza autentica».

Prima di essere un settore della ricerca filosofica, la Storia della cultura è dunque un atteggiamento per il quale «i contenuti particolari delle singole discipline» acquistano senso e si intendono soltanto «entro il quadro di riferimento complessivo».
Il modo in cui Magnano San Lio conduce la sua analisi su questi temi è esso stesso un’applicazione e una conseguenza di quanto sinora detto. Si tratta infatti di un metodo che coniuga l’analisi rigorosa del dato con la sua interpretazione all’interno di un contesto di storia delle idee assai più ampio. Il circolo ermeneutico che ne scaturisce diventa un circolo virtuoso «nel senso che ad ogni ulteriore momento del procedere lungo tale percorso circolare si perviene, comunque, ad un livello di comprensione ulteriore».

L’elemento più fecondo che scaturisce da queste pagine, erudite ma anche singolarmente lievi nella loro espressione, è la necessità ormai di andare oltre la stessa distinzione tra Scienze della Natura e Scienze dello Spirito, per cogliere invece l’unità molteplice del sapere umano, necessario riflesso del legame che accomuna e distingue ogni ente, evento e processo. Le ninfe degli affreschi di Ghirlandaio a Firenze e l’ellisse con la quale Keplero aprì il cosmo a regole e armonie più dinamiche, costituiscono ambiti differenti della storia della cultura ma convergenti verso un nuovo modo di intendere la vita e la materia nel tempo.