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L’idea di Rivoluzione celebrata in questo centenario rischia di prescindere dalla materialità del comunismo nel Novecento. È un rischio presente tanto nel ricordo pacificato di quell’evento – che lo vorrebbe costringere tra le curiosità della storia – quanto in chi, nel tentativo (benemerito) di tenere in vita un’attualità del comunismo, evita il corpo a corpo con la storia grande e tragica del XX secolo. In tal senso andrebbe letto questo Palmiro Togliatti e il comunismo del Novecento (Carocci editore, pp. 169. euro 17): uno strumento in più per interpretare il presente partendo da una corretta metabolizzazione del nostro passato.

L’INDICAZIONE è importante sin dal titolo: è il «comunismo del Novecento» che prende forma attorno al ricordo di Togliatti. Come rammenta Giuseppe Vacca, «se Stalin è stato il principale artefice della «costituzione materiale» del comunismo sovietico, Togliatti ebbe un ruolo analogo nella vicenda del comunismo italiano». Impossibile allora aggirare la figura del Migliore. Il volume, una raccolta di saggi curata da Alexander Höbel e Salvatore Tinè, ne propone una sintesi. Ma, al di fuori dell’interesse accademico, è ancora utile politicamente riflettere su Togliatti? La questione è di difficile soluzione.

Non c’è dubbio, come ricorda Aldo Agosti, che Togliatti «può essere considerato una delle personalità più emblematiche della guerra civile europea», nonché, secondo Höbel, «il dirigente comunista che manifesta la più ampia autonomia politica e culturale, che segna in modo rilevante il carattere del partito italiano». Questo il motivo per cui, a più di vent’anni di distanza dalla fine di quella storia, continuano a fiorire indagini e ricerche sulla figura del dirigente comunista. Eppure la sua attualità politica andrebbe indagata con perizia.

I DIVERSI SAGGI che compongono il volume convergono su alcune interessanti tesi di fondo. La prima: nonostante certa vulgata revisionista, Togliatti mantenne fino all’ultimo il Pci libero dai condizionamenti esterni provenienti dall’Urss (la stessa cosa non può dirsi del Pcf francese), ma allo stesso tempo impedì al partito di scivolare su posizioni apertamente socialdemocratiche di rottura col campo comunista (come la Spd tedesca).

Rimanere nel campo comunista senza dipendere dal partito sovietico: questa l’alchimia raggiunta dal realismo togliattiano, un equilibrio per nulla scontato nell’Europa divisa in blocchi. La seconda tesi unanime: l’originalità togliattiana di analizzare il fascismo come movimento reazionario di massa, cogliendone non solo «la tendenza alla reazione tipica del capitalismo ma anche una espressione delle più avanzate tendenze modernizzatrici nel campo della politica e dello Stato». È l’analisi della «sostanza dei processi storici», come evidenzia Salvatore Tinè, a rendere Togliatti strumento imprescindibile dell’internazionale comunista per la comprensione dei fenomeni sociali e politici dell’Europa occidentale.
Togliatti si qualificherà, dalla fine della Seconda guerra mondiale, come massimo stratega di quella «guerra di posizione» del blocco comunista nei confronti dell’Occidente capitalista. Una guerra di posizione che però, da scelta tattica contingente, finirà per assumere i caratteri cristallizzati del determinismo politico. È in questo senso allora che, finito il socialismo reale, anche quella particolare forma di prassi comunista entra in crisi irreversibile. Perduta ogni «posizione» da difendere, al personale politico comunista-togliattiano non rimane che amministrare l’esistente.

DI TOGLIATTI allora resta la lezione di un realismo politico sottratto ai ceti dominanti e declinato in chiave proletaria; nonché la capacità di legare i processi sociali agli epifenomeni che si materializzano nel cielo della politica. Ma in un’epoca in cui a prevalere è la capacità di movimento dei soggetti politici, lo stratega della guerra di posizione rischia di rimanere confinato nell’inattualità che contraddistingue il campo della sinistra radicale. In ciò trova senso un ricordo di Togliatti che non sia solo elegia post festum, ma neanche condanna totale (e ambiguamente trasversale) della sua traiettoria politica.